Centrafrica | La guerra non si ferma

di Enrico Casale
repubblica centrafricana

Nella Repubblica centrafricana si continua a combattere.  A un anno dalla firma dell’accordo di pace tra 14 gruppi ribelli e il governo, il Paese è ancora teatro di una violenza diffusa con sporadici (ma violentissimi) scontri e abusi contro i civili. I due terzi del territorio sono tuttora nelle mani di gruppi armati.

Nei giorni scorsi, secondo quanto denunciato dalla Minusca, la missione delle Nazioni unite in Centrafrica, sono state uccise 13 persone, in gran parte civili, nella città di Ndélé, capitale della prefettura di Bamingui-Bangoran. Fazioni dello stesso gruppo armato, il Fronte popolare per il rinascimento della Repubblica centrafricana (Fprc), una delle principali milizie operative sul territorio, si sono duramente scontrate con tiri di armi pesanti e scambi di fuoco con armi leggere. Questo gruppo riunisce in sé diversi gruppi etnici, due dei quali, rounga e goula, si stanno  combattendo per il controllo delle risorse.

I peacekeeper della forza di pace della Minusca hanno intensificato le pattuglie, hanno assicurato i funzionari delle Nazioni Unite. Ma sabato scorso gli stessi caschi blu sono stati vittime di attacchi e un militare delle Nazioni Unite è stato ucciso.

La Repubblica centrafricana è piombata nell’instabilità  il 24 marzo 2013. In quel giorno, il presidente François Bozizé è stato costretto a fuggire dalla capitale di fronte all’avanzata delle milizie Seleka. «Fin dall’indipendenza – ricorda padre Dorino Livraghi, gesuita, per anni missionario a Bangui -, il Paese è stato scosso da colpi di Stato. La popolazione locale li considerava quasi fisiologici. Dopo le prime settimane di instabilità, tutto però tornava come prima. Questa volta si è capito che eravamo di fronte a qualcosa di diverso».

Le milizie Seleka erano composte prevalentemente da ribelli musulmani in maggioranza provenienti da Ciad e Sudan. Quindi stranieri e musulmani, in un Paese che ha sempre guardato con diffidenza le popolazioni che venivano dal Nord. «In realtà – osserva padre Aurelio Gazzera, carmelitano, missionario a Bozoum -, nel Paese non c’è mai stato un conflitto tra le comunità cristiane, animiste e musulmane. Anzi c’è sempre stato un delicato equilibrio che vedeva, da una parte, i cristiani occuparsi di agricoltura, piccolo commercio e amministrazione e, dall’altra, i musulmani occuparsi di allevamento e commercio all’ingrosso».

Negli anni che sono seguiti al golpe contro Bozizé, ai miliziani Seleka si sono progressivamente contrapposti gruppi cristiano-animisti riuniti sotto la sigla anti-Balaka. «La religione è stata utilizzata in modo strumentale – continua padre Gazzera -. Per i leader delle milizie è un utile mezzo per aizzare i miliziani, quasi tutti giovanissimi, poveri e poco o nulla istruiti, contro gli avversari. La convivenza, possiamo dirlo senza essere smentiti, è stata esacerbata dai comandanti e dai politici».

A porre un freno alle violenze è stata la visita di Papa Francesco a Bangui nel 2015. La sua presenza ha portato a un riavvicinamento delle parti in conflitto e a più accordi di pace. Le firme sui documenti però non hanno fermato le violenze.

Gli scontri e gli attacchi contro i civili hanno costretto un cittadino su quattro a fuggire dalle proprie case. Più di 600mila persone sono sfollate all’interno del proprio Paese e quasi 594mila hanno cercato rifugio nei Paesi vicini come Camerun, Repubblica Democratica del Congo e Ciad, tutte nazioni che lottano con alti tassi di povertà. Sono in totale 2,6 i milioni di persone che hanno bisogno di assistenza sanitaria.

Una tragedia umanitaria che continua, nel silenzio quasi totale, dei media.

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