…e poi siamo morti tutti

di claudia

di Raffaele Masto

Una testimonianza che rievoca i fatti di quando, con il collega Davide Demichelis, Raffaele Masto entrò in Ruanda al seguito del Fronte Patriottico Ruandese, guidato da Paul Kagame. Una delle esperienze più traumatiche della sua carriera. 

Attraverso un amico ruandese ci fu concesso di essere aggregati come giornalisti alle truppe del Fronte Patriottico Ruandese che stazionavano a Kabale, sulla frontiera tra Uganda e Ruanda, e che penetrarono nel piccolo paese dalle mille colline per fermare i massacri contro i tutsi da parte degli estremisti hutu che volevano eliminare ogni possibilità di accordo con gli odiati nemici.

Il collega con il quale viaggiavo era Davide Demichelis. Eravamo entrambi giovani, ma già abbastanza abituati a muoverci in situazioni di guerra. Eppure quella esperienza fu una delle più toccanti di tutta la mia carriera.

Arrivavamo sui luoghi dei massacri poco dopo che erano stati compiuti. I guerriglieri di Paul Kagame erano impegnati in una lotta contro il tempo, in un inseguimento frenetico. Le immagini che i massacratori si lasciavano alle spalle erano tremende: mucchi di corpi trapassati da proiettili o squartati dai machete, chiese traboccanti di cadaveri uccisi con le granate, villaggi abbandonati, capanne date alle fiamme. Anche i vecchi, che non avevano la forza di scappare, erano stati massacrati senza pietà.

Mentre quelle scene mi scorrevano davanti agli occhi mi dicevo che avrei cambiato mestiere. Mi risultava impossibile in quel momento pensare che sarei riuscito a raccontare ciò che vedevo con i miei occhi. Passai in Ruanda un’intera settimana e non riuscii mai a dormire. Di notte avevo l’impressione che ci fossero processioni di cadaveri che si muovevano per i villaggi.

La mattina, con gli occhi gonfi, mi trovavo di fronte a uno spettacolo naturale ineguagliabile, incantevole: colline ammantate di verde avvolte da quella nebbiolina di vapore acqueo che rende tutto un po’ sfuocato, come una foto scattata di proposito con quell’effetto. La bellezza del panorama e la crudezza delle scene che mi stavano intorno creavano un contrasto insopportabile.

Una delle situazioni che mi rimasero più impresse fu quella di un bambino, unico superstite trovato in un villaggio. Era stato fortunato: era caduto in un fosso e, terrorizzato, vi era rimasto acquattato. I massacratori non si erano accorti di lui. Quando i guerriglieri tutsi arrivarono lo scoprirono piangente nel suo nascondiglio e gli chiesero di raccontare cosa aveva visto, mentre le sue parole venivano tradotte per i due giornalisti.

Il piccolo spiegò che avevano ucciso tutta la sua famiglia, e lo fece con dettagli incredibili e con una lucidità che – pensai – in futuro lo avrebbe distrutto. Terminò il suo racconto dicendo: «…e poi siamo morti tutti». Ma lui era vivo! I guerriglieri glielo facevano notare, eppure lui continuava a usare quel plurale tremendo. Senza famiglia, senza villaggio, senza più niente, quel piccolo si considerava morto…

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