La verità ai tempi dell’informazione globale

di claudia

di Raffaele Masto

L’Africa è piena di uomini e donne che meriterebbero attenzione. Ma come viene raccontato il continente dai media? Riflessione su luoghi comuni, immagini non reali e problematiche alla base dell’informazione in Africa e sull’Africa.

«Se fosse stato africano non sarebbe nemmeno arrivato alle primarie.» Sono le parole, velenose e amare allo stesso tempo, che Mia Couto, grande scrittore mozambicano, pronunciò subito dopo l’elezione di Barack Obama a presidente degli Stati Uniti nel 2008. Parole che in quell’occasione erano provocatoriamente rivolte a gran parte dei capi di stato del continente che, ovviamente, avevano commentato con toni enfatici e adulatori la conquista, da parte di un nero, della massima carica politica della più grande potenza mondiale.

La frase di Mia Couto, oltre ad avere provocato (forse) qualche scatto di stizza, o semplicemente di insofferenza, ad alcuni leader africani, tira in ballo anche i giornalisti, che siano africani o meno. La domanda è d’obbligo: quali giornali avrebbero dato spazio a un Obama africano? Chi sarebbe stato capace di non oscurare, su richiesta del dittatore di turno, un personaggio fautore di una svolta rispetto al potere costituito?

La domanda, naturalmente, riguarda anche (e forse maggiormente) giornali e giornalisti dell’Occidente, dove la libertà di stampa c’è. Quanti avrebbero «cercato» un personaggio come Obama e lo avrebbero fatto conoscere attraverso i loro articoli?

Insomma, sarà banale, ma il problema dell’informazione dall’Africa e sull’Africa sta (quasi) tutto qui, nel fatto che nei paesi africani giornali e giornalisti temono (e spesso ne hanno buone ragioni) che schierarsi contro il potere costituito sia troppo rischioso, e in Europa o in Nordamerica i media dei paesi «liberi dalle dittature» preferiscono (e non ne hanno buone ragioni) appiattirsi sui luoghi comuni e sui cliché che non aggiungono niente all’informazione sull’Africa.

Questo sistema riproduce in eterno ciò che è già noto: gli oppositori diventano personaggi degni di nota solo quando sono neutralizzati, in carcere o eliminati.

Eppure l’Africa è piena di uomini e donne che meriterebbero attenzione e che andrebbero rafforzati rendendo pubblica la loro azione, richiamando l’interesse dell’opinione pubblica internazionale sulle loro lotte e sulle loro richieste.

Su questo tema ho un aneddoto personale che per me, qualche anno fa, fu illuminante. Era la primavera del 1997 e mi trovavo a Kinshasa in un momento cruciale della storia recente del Congo: il vecchio e malato dittatore, Mobutu Sese Seko, stava per essere rovesciato da un capo guerrigliero, Laurent-Désiré Kabila, che era arrivato con i suoi miliziani alle porte della capitale e minacciava di entrarvi. La città era in preda al panico e, cosa veramente anomala per una città africana, semideserta. Di lì a poco sarebbe potuto accadere di tutto: saccheggi, violenze, rese dei conti. Per sincerarmi delle condizioni della città andai, assumendomi qualche rischio, in una delle baraccopoli di Kinshasa dove un ragazzo, una delle poche persone a non aver ancora cercato rifugio da qualche parte, mi avvicinò e mi chiese da dove venivo. Gli dissi che ero italiano e lui mi rispose: «Ah, l’Italia, paese pericolosissimo… la mafia!»

Ecco, noi siamo informati sull’Africa con gli stessi luoghi comuni che hanno formato in quel ragazzo un’immagine non reale del nostro paese. Noi conosciamo l’Africa allo stesso modo, con la stessa superficialità, perché il circuito globale che produce e diffonde notizie è lo stesso per gli africani e per gli europei.

Un esempio per tutti: quasi sempre le guerre africane vengono archiviate come conflitti etnici, meglio ancora tribali. Non c’è nulla di più falso: più correttamente si dovrebbe dire che le guerre in Africa sfruttano le differenze etniche. Così come sfruttano la miseria, la mancanza di istruzione, le differenze religiose. La versione semplicistica e schematica del conflitto tribale non impone altre ricerche per comprendere l’origine di una guerra. C’è già tutto nella definizione che è stata già usata, con successo, per spiegare altri conflitti.

La versione più complessa invece presuppone un motivo di fondo occulto, inconfessabile (chi usa la religione? o le differenze tribali?) e dunque, per chi fa informazione, è un aspetto da scoprire, da ricercare, da indagare. C’è una bella differenza!

Condividi

Altre letture correlate: