L’Africa che cambia: l’urbanizzazione

di claudia

di Raffaele Masto

L’Africa è cambiata e così il modo di viverla. Oggi la maggioranza delle persone abita nelle città, contribuendo ad un processo di urbanizzazione che sembra non arrestarsi mai. I nuovi scenari sono megalopoli invivibili per caos e insicurezza, costellate da baraccopoli nelle periferie urbane, dove nascono anche reti di solidarietà impensabili, e laboratori sperimentali di creatività umana

Solo pochi decenni fa la stragrande maggioranza degli africani era distribuita su un vasto continente e abitava soprattutto in aree rurali nelle quali praticava un’agricoltura detta di sussistenza perché non faceva uso di sistemi intensivi di coltivazione. Da qualche anno la situazione si è capovolta. In termini numerici sono più gli africani che vivono in grandi megalopoli di quelli che invece sono rimasti nelle zone rurali.

Quella delle città, in questi ultimi decenni, è stata una attrazione fatale. Il richiamo è lo stesso di sempre: chi arriva cerca fortuna oppure fugge dalla guerra, cerca sicurezza, spera in un’alternativa alla miseria di un’agricoltura povera, spesso incapace di garantire una vita decente.

Tutte speranze che però in città finiscono per essere deluse. Negli ultimi tempi si sono formate megalopoli che, dal punto di vista dei numeri, dell’insicurezza, del caos fanno paura: milioni e milioni di abitanti accalcati in aree che diventano invivibili, con un traffico di mezzi a motore e un inquinamento spaventoso, oltre a un tasso di violenza insopportabile. Basta pensare a città come Lagos, Kinshasa, Luanda, Nairobi, Addis Abeba.

Eppure, nell’immaginario collettivo occidentale, l’Africa è ancora il villaggio, la capanna, le danze tribali, le maschere, i tramonti nella savana, i tamburi. In realtà quell’Africa è un aspetto decadente del continente, mentre invece la città è un luogo di grande sviluppo, una fucina di idee e di creatività. E anche un territorio, diciamo così, di… esplorazione.

Si, la città, lo slum è l’Africa che oggi andrebbe esplorata, conosciuta, raccontata. Lo si fa poco: i giornalisti seguono le guerre, le crisi, la politica, le carestie. La baraccopoli invece è la normalità, ed è troppo violenta per frequentarla.

Ma negli slum ci sono dinamiche di grande interesse. Si sviluppano reti di solidarietà impensabili, sono grandi laboratori sperimentali di creatività umana dove si ricicla tutto: dai beni materiali (rifiuti dei ristoranti, elettrodomestici, auto, vari oggetti di plastica di uso quotidiano) a quelli intellettuali (si crea musica da motivi commerciali che vanno di moda, si vendono Dvd con film a puntate, si disegnano tessuti di moda su stracci usati). Certo, la baraccopoli è anche il regno della violenza e della sopraffazione, ma del resto non è che lo stato e la grande città, e i politici che la governano, siano teneri con i nullatenenti.

Insomma, se un tempo l’Africa era quella delle tribù, delle etnie, dei capi villaggio, oggi è quella dei boss, delle bande giovanili e dei rapper che cantano la vita dello slum. È l’Africa del futuro che si fa strada.

Foto di Benson Ibeabuchi / Afp

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