Testimonianza | Il coronavirus visto da uno SPRAR

di Stefania Ragusa

Quando sono arrivate le notizie sui primi contagiati italiani mi trovavo al master che frequento nel weekend. Professori e studenti si scambiavano qualche battuta sulla composizione della classe, composta prevalentemente da lombardi e veneti.
Domenica usciva il primo decreto e venivano istituite le zone rosse.
A quel punto ho scritto immediatamente nel gruppo WhatsApp, avvisando i ragazzi ospiti nel progetto Siproimi che l’indomani ci saremmo visti per una riunione urgente e chiedendo la presenza di tutti. La nostra è una piccola comunità: un progetto con 10 posti disponibili di cui solo 5 al momento occupati; una piccola comunità in una piccola comunità, Occhiobello, un paese di 12mila abitanti in provincia di Rovigo. La cooperativa che gestisce lo Sprar si chiama Di tutti i colori.
Io (che svolgo il ruolo di coordinatore/operatore) e l’operatrice intanto abbiamo invitato il materiale informativo, senza destare troppi allarmismi; avevamo già avuto modo di parlare di coronavirus.
Il giorno dopo i ragazzi, provenienti da Pakistan, Gambia, Eritrea e Mali, erano tutti presenti. In casa ci sono spesso ex ospiti che passano talvolta per dare un saluto. Abbiamo invitato a restare anche loro, così da condividere le informazioni con quante più persone possibili. Spiego cosa sta succedendo, leggiamo insieme il decalogo, rispondo a tutte le curiosità e i dubbi, cercando di non allarmare più del necessario. Ora è sufficiente che chi viene dalle zone rosse rispetti alla lettera le regole, anche quando le zone rosse – inevitabilmente – si moltiplicheranno. Per quanto ci riguarda, condivido con i ragazzi le precauzioni necessarie e i comportamenti da tenere per evitare l’avanzare del contagio.

“Ma posso andare a Ferrara?” – “Se è per una esigenza importante sì, altrimenti evitiamo”. La riunione è lunga, densa di contenuti, parole libere, pensieri che si accavallano. C’è chi è tranquillo, chi si affida a Dio, chi già fa la conta dei contagiati, e controlla ossessivamente il sito del Ministero.
Li informo che la mattina seguente durante la lezione di italiano avrebbero approfondito il decreto e le prescrizioni e letto insieme qualche articolo di giornale.
Il miracolo del coronavirus è aver portato tutti i ragazzi a scuola, puntuali, senza bisogno di sollecitazioni, il mattino seguente.
Svolgiamo altre riunioni, sia tra un provvedimento e l’altro che subito dopo ogni nuovo provvedimento, in modo che gli ospiti siano sempre aggiornati e preparati. Il gruppo di WhatsApp diventa quasi monotematico: chi invia vademecum, chi slide, chi video ironici, qualcuno un video di un cinese che mangia topi vivi, in risposta alle parole di Zaia che avevo condiviso con loro il giorno prima. Si commentano le notizie, ci si scambiano informazioni, che vengono poi riprese e approfondite – dato l’accordo dell’équipe – anche durante le lezioni di italiano, oltre che nei colloqui informali. Il coronavirus ci offre lo spazio di variare il topic delle riunioni della casa: non più solo turni di pulizie, e tipici problemi di convivenza quotidiana, ma l’importanza di verificare le fake news, la paura della morte, il razzismo. Le memorie riaffiorano e non sono più un tabù: qualcuno ricorda l’arrivo in Italia e i trattamenti anti-scabbia, qualcun altro l’accoglienza con guanti e mascherina, e un braccialetto con un numero, che mi ha sempre ricordato – con un brutto brivido – numeri tatuati sulla pelle. Io racconto di quelle bolle sul braccio, e il terrore negli occhi degli operatori sanitari ai tempi della prima emergenza, quando molti ragazzi risultavano positivi al test Mantoux (il test di screening che consente di rilevare la presenza del batterio della tubercolosi, ma che risulta positivo anche in pazienti ormai non più infettivi o vaccinati contro la tbc) e spiego che dalle novità in ambito sanitario si impara e si modificano anche alcuni comportamenti.

Ora che tutta Italia è zona rossa, abbiamo tenuto l’ultima lezione di italiano in presenza, proprio per poter spiegare questa novità: le prossime saranno effettuate via WhatsApp, o Skype. Ma rimaniamo. Chi opera nel sociale in molti casi non può chiudere. Non può sparire. In ottemperanza della legge, e seguendo il buon senso, stiamo privilegiando lo smart working. Gli ospiti lo sanno, e si stanno abituando alla nostra “assenza”: un cambiamento importante, dal momento che il nostro ufficio si trova sotto la struttura di accoglienza, ed è consolidata l’abitudine a incontrarsi, per parlare, per condividere un tè o semplicemente domandarsi: ”Come va?”. Siamo una comunità, abituata a salutare i vicini di casa, a sedersi al bar con gli anziani del paese. Tuttavia, nonostante la distanza fisica, la comunicazione e la reciprocità di informazioni, rende questa piccola comunità forte e solida; mi rendo conto ora, in questa situazione difficile, che questo è uno di quei privilegi che ci eravamo abituati a dare per scontato.

(Francesca De Luca)

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