(Quasi) tutti connessi

di claudia

di Marco Aime

L’esplosione della telefonia mobile – prima i “telefonini” poi anche gli smartphone – è stata velocissima e dilagante. E la sua crescita non è certo terminata. Un fenomeno dalle molte valenze positive, ma che dà anche luogo a società che viaggiano a velocità diverse

In una cornice appesa a un muro di casa mia conservo una collezione di carte telefoniche maliane, raffiguranti i principali luoghi storici di quel Paese: Timbuctu, Djenné, Mopti. Quelle schede sono già archeologia. Non se ne vedono più in giro. Come i phone-center, quei chioschi di legno con una finestrella davanti e un telefono impolverato, appoggiato sulla piccola mensola, da cui tutti telefonavano. Molti sono abbandonati, gusci vuoti o riciclati da venditori di Sim e ricariche per cellulari. È impressionante la rapidità con cui i telefonini prima e gli smartphone poi si sono diffusi in tutta l’Africa, ora diventata il secondo mercato al mondo dopo quello di Asia-Pacifico. Nel 2022 i possessori di un apparecchio erano il 51% della popolazione africana, ma le previsioni per il 2030 parlano di un 87%. Insieme all’India, l’Africa subsahariana rappresenta quasi la metà dei nuovi abbonati mondiali. Molto e in fretta.

La diffusione del cellulare ha mutato profondamente i costumi africani: non è difficile immaginare cosa significhi, dal più remoto villaggio dell’altopiano burkinabè o del deserto maliano, poter chiamare i parenti che vivono a Bamako se non in Europa. L’isolamento che segnava questi luoghi si è in qualche modo attenuato, mutando così anche la percezione di sé tra gli abitanti.

Colpisce la velocità e l’apertura mentale con cui la gente di qui accetta e fa proprie le innovazioni tecnologiche. Uno stupore che si fa ancora più forte quando, con un certo inevitabile sguardo etnocentrico, fa sì che strida ai nostri occhi l’utilizzo di un mezzo moderno come il telefonino e le condizioni di vita che lo circondano: abitazioni in terra e paglia, costumi tradizionali, attrezzi antichi. Siamo sempre un po’ vittime del nostro spirito classificatorio, che viene messo in crisi quando ci imbattiamo in scenette come quella a cui ho assistito diversi anni fa a Timbuctu.

Le strade di Timbuctu sono tutte coperte di sabbia. È un piacere camminarci sopra, il piede affonda piano e si prende quel passo lento che hanno gli abitanti di qui. Poco avanti a me due ragazze, forse francesi, chiacchieravano con una giovane guida tuareg che proponeva loro un’escursione in cammello, per andare a trovare la famiglia e bere un tè assieme. Solo un tè, nient’altro, assicurava il giovane, prevenendo i sospetti delle ragazze. I giovani tuareg sanno che i turisti ormai sanno che dietro c’è sempre qualche cosa da comprare, e ciascuno di loro cerca di atteggiarsi a diverso dagli altri, che abbordano i turisti solo per vendere.

Un po’ perplesse, le ragazze si guardavano l’un l’altra, indecise, quando al ragazzo suonò il cellulare. Un suono di amzad, il violino tradizionale monocorde tuareg, uscì dalle pieghe del lungo boubou azzurro. Con gesto rapido il ragazzo infilò la mano nella tasca anteriore e rispose in tamashek. Finita la chiamata, una delle ragazze guardò entusiasta il telefonino: «Che bella musica! Cos’è?». Il ragazzo spiegò che era un gruppo di Tidal, che faceva musica tradizionale: «La vuoi?». «Mi piacerebbe, ma come fai a metterla sul mio cellulare?». «È facile. Non hai il bluetooth?». Non solo la ragazza non l’aveva, ma neppure sapeva cosa fosse.

Sempre a Timbuctu, mentre stavo conducendo una ricerca sulle compagnie d’età, mi trovai un giorno a incontrare Hawa Touré, la presidentessa di una compagnia femminile. Fino ad allora, tutte le compagnie maschili che avevo incontrato avevano un’organizzazione simile, dove spiccava una figura particolare: il basouda. Si tratta di una sorta di portavoce del capo, che alle riunioni serve tutti a tavola e, quando si deve convocare una nuova riunione, passa di casa in casa dei membri della compagnia per avvisarli. Nessuna delle partecipanti alle compagnie femminili mi aveva mai accennato al basouda. Chiesi allora ad Hawa come mai. Rispose che le donne non amano avere una portavoce, che era una figura poco moderna e poi… Hawa estrasse dalla tasca del suo bel vestito giallo oro un cellulare e mi disse: «Se devi convocare una riunione, basta mandare un sms a tutte!».

Anche il Sahel, come l’Africa tutta, è entrato nel mondo del web. Piano piano, silenziosamente e in ritardo rispetto ad altre parti di mondo, ma vi è entrato. Dando vita a un altro dei tanti paradossi di questa terra: da un lato giovani cittadini che affollano i cybercentre, per chattare nei social network e connettersi con il resto del mondo, dall’altro, persone che non hanno mai fatto o ricevuto una telefonata o una lettera. Di certo c’è che il fenomeno si sta diffondendo, anche se a macchia di leopardo e con una rapidità impressionante. Il continente africano è una realtà molto frammentata, costituita da una galassia di villaggi, sparsi nella savana, ma soprattutto è abitata da molta gente non alfabetizzata, che può facilmente usare il cellulare ma non internet, anche avendo la rete a disposizione.

Tra i possessori di telefoni cellulari nell’Africa subsahariana, l’attività più comune è quella di inviare messaggi di testo (circa l’80% degli utilizzatori, con punte del 95% in Sudafrica e del 92% in Tanzania). La seconda attività più popolare è scattare foto o girare video: il 53% dei soggetti intervistati per una recente ricerca del Pew Research Center usa lo smartphone per questo scopo e i Paesi in questo più coinvolti sono il Sudafrica (60% dei possessori) e la Nigeria (57%).

In Kenya, il 61% degli utilizzatori usa il proprio telefonino per trasferire denaro, attività diffusa anche in Uganda (42%) e in Tanzania (39%). L’uso dello smartphone per accedere ai social network, invece, è più diffuso in Nigeria (35%) e in Sudafrica (31%) rispetto agli altri Paesi. I possessori di dispositivi mobile in Nigeria e in Kenya amano anche ricevere notizie e informazioni politiche (28%).

Dagli studi condotti emerge anche come i giovani, le persone con un’istruzione superiore e in grado di comunicare in lingua inglese abbiano più alte probabilità di partecipare a gran parte di queste attività su smartphone: il 65% dei possessori di un dispositivo di questo tipo fra i 18 e i 34 anni in Ghana afferma di utilizzarlo per i messaggi di testo, attività che fa solo il 34% degli utilizzatori maggiori di 35 anni. Similmente, il 62% dei giovani in Ghana dichiara di scattare foto o girare video con il proprio cellulare, cosa che fa solo il 33% dei più anziani.

Si tratta di un fenomeno in gran parte urbano (ma non solo) e limitato al mondo giovanile e alla popolazione letterata. Certo fa effetto, per chi ha viaggiato su queste piste anni fa, quando era difficile, se non impossibile, persino fare una telefonata in loco (non parliamo di quelle intercontinentali, fatte di lunghe attese, interminabili ronzii e tristi cadute di linea), ricevere e inviare regolarmente email ad amici del posto da cui avere notizie. Da un lato la cosa non può che essere vista positivamente, dall’altro, però, mette in evidenza come questa regione del mondo si stia frammentando in parti che viaggiano a velocità sempre più diverse tra di loro.

Questo articolo è uscito sul nuovo numero della rivista Africa, per acquistare una copia, clicca qui.

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