Omaggio al re dell’Afrobeat, Fela Anikulapo- Kuti

di claudia

di Annamaria Gallone

A venticinque anni dalla morte, Fela Anikulapo- Kuti , il creatore dell’Afrobeat e una delle grandi figure politiche della Nigeria, è più vivo che mai. Adorano la sua memoria i Nigeriani e la sua musica è ascoltata e ballata in tutto il mondo. A celebrarlo un film e una mostra che da Parigi si sposterà a Londra e, speriamo, anche in Italia.

L’eccezionale mostra musicale, intitolata Fela Anikulapo-Kuti – Afrobeat Rebellion, si è tenuta, con un’enorme affluenza di pubblico l’estate scorsa alla Philharmonie de Paris per dare voce ai movimenti di libertà dei nigeriani e raccontare la vita straordinaria di questo cantante-guerriero, diviso tra musica e politica, animato da una ricerca di libertà e giustizia per i più svantaggiati. Voce e sax fondatori del movimento afrobeat, sound ibrido di musica tribale, funk e jazz dall’influenza importantissima sulle generazioni successive della scena black fino ai giorni nostri. Ma soprattutto figura politica militante, rivoluzionaria, fieramente in opposizione alle dittature militari e alle ingerenze occidentali che squarciavano e squarciano la sua nazione. La mostra rivela le principali influenze e gli elementi importanti della vita di questo artista. Tanti i concerti: una miscela di free jazz, yoruba, soul e funk, una buona dose di ottoni e percussioni, in una scenografia insolita, un’immersione nella danza con i movimenti di tre ballerine e ballerini di House, krump e waacking. Musica politica, trance ma anche danza: il lavoro di Fela Anikulapo-Kuti ha incoraggiato il movimento dei corpi e ispirato un’intera nuova generazione di ballerini. Presenti a Parigi anche due illustri membri della famiglia Kuti, Femi e suo figlio Mádé, il gruppo jazz londinese Kokoroko, la cantante nigeriana con sede a Londra Obongjayar e la cantante Aṣa, cresciuta tra Francia e Nigeria. E non mancano nella mostra le immagini delle sue bellissime, fantastiche “Regine”, le 27 ballerine e cantanti che tanto contribuirono al successo dell’afrobeat: le sposò tutte lo stesso giorno divorziando poco dopo da tutte dichiarando che nessun uomo può vantare dei diritti sulla vagina di una donna. Il gesto voleva essere una critica agli uomini occidentali, che si dichiarano monogamici e tengono nascoste le loro amanti.

Grande rilievo è dato anche citazioni della sua lotta politica: ispirato dal panafricanismo di Malcom X e Cheikh Anta Diop, tutti i testi della sua musica e i suoi discorsi sono intrisi di accuse contro le ingiustizie del governo, la corruzione delle élite e il neocolonialismo, pagando tutto questo a caro prezzo.  Dalla sua casa di Kalakuta Republic, un sobborgo di Lagos il Black Presidet, come venivachiamato, ha rilasciato potenti dichiarazioni, accompagnato dalla sua famiglia e dai membri della sua band. La mostra ripercorre il suo viaggio intellettuale per comprendere l’origine e lo sviluppo dell’Afrobeat da parte dell’uomo che ha descritto la musica come “l’arma del futuro”.

Gran parte di questo è raccontato in modo trasversale nell’originale lungometraggio di Daniele Vicari, Fela, il mio dio vivente.

I protagonisti del film sono due: Fela e Michele Avantario, filmmaker e video artista romano, appassionato di musica jazz e africana. Il suo incontro con Fela Kuti cambiò totalmente la sua vita: affascinato dal personaggio e dalla sua musica, divenne l’unico bianco, ospite intimo di Kalakuta Republic, portò in Europa più volte i concerti del Black President, divenne suo discepolo, fu introdotto ai suoi rituali magici, ma il suo grande sogno era quello di fare un film sul suo idolo, il suo “dio vivente”. A lungo Fela non glielo concesse, tuttavia Michele girò il più possibile della vita e delle performance del musicista, seguendolo con appassionata dedizione, ma non riuscì mai a realizzare il suo sogno poiché, appena ottenuta l’autorizzazione per il film improvvisamente Fela morì..

Mettere insieme le immagini e i concerti del grande musicista non è stato semplice, ma il piccolo grande miracolo si è avverato soprattutto per merito di Renata di Leone, che era la moglie di Michele, produttrice del film insieme a Giovanni Capalbio e custode di un incredibile archivio, custodito per oltre un quindicennio, dopo la scomparsa del marito nel 2003.

Daniele Vicari coglie tutta la passione che trapela dai reperti e ne nasce un’opera intrigante, impossibile da definire come genere, in cui Michele racconta la sua vita, il suo magico incontro con Fela e ciò che ne è derivato. Dice il regista: Con questo film provo a raccontare una storia semplice ma potente, quella di un ragazzo che si confronta con un mito vivente, tentando di realizzare un film impossibile. 

Una scena tratta da  Fela, il mio dio vivente di Daniele Vicari

Nel lungometraggio compaiono anche preziosi materiali d’archivio che documentano la brutalità della polizia quando la casa di Kalakuta fu bruciata, le donne violentate con cocci di bottiglia, la madre dell’artista, prima donna attivista africana, fu uccisa, gettata da un balcone. Chiaramente il governo non poteva tollerare le idee rivoluzionarie del musicista e lo perseguitò tutta la vita. E altrettanto tragiche e impressionanti sono le immagini dei funerali di Fela, filmate da Avantario, testimone d’eccezione della fine di una leggenda, tra la commossa folla oceanica venuta a salutare il suo eroe. Ma anche in questa sequenza di lutto, c’è posto per gioia, la musica.

È una storia che suona, balla, fuma, ama, viaggia, che ha il sapore dell’Africa, della politica, degli anni ‘70 e che supera ogni forma di colonialismo, anche quello “interiore” che ancora oggi ci portiamo dentro.

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