Malawi, dove nasce lo zucchero

di claudia

di Pierre Yambuya – foto di Luca Catalano Gonzaga

Reportage dalle piantagioni di canna del Malawi che danno (duro) lavoro a migliaia di braccianti. L’industria saccarifera, in piena espansione per volere del governo di Lilongwe, crea molta occupazione, ma sottrae terre all’agricoltura di sussistenza e pone seri interrogativi sul degrado ambientale e sulle condizioni di vita dei lavoratori

La fuliggine avvolge tutto: piante, terreno, volti e corpi. Il pulviscolo rende difficile anche respirare. Le protezioni sono minime e spesso insufficienti. Le ore passano lente per i tagliatori di canna da zucchero malawiani. Lavorare in queste condizioni sotto il sole implacabile nelle piantagioni di canna da zucchero dell’Africa australe è una tortura. La paga è bassa. Le tutele sindacali sono limitate. L’assistenza sanitaria è lacunosa. Qui il lavoro si accompagna con condizioni di vita difficili.

Strategia del governo

A gestire la coltivazione della canna da zucchero in Malawi sono soprattutto società straniere diventate una realtà sempre più forte nell’economia locale. Le politiche governative che hanno agevolato la monocoltura della canna hanno fatto sì che nel tempo ogni coltivatore, anche indipendente, abbia dovuto fare i conti con questa situazione.

Tutto inizia nel 2009, quando l’allora governo del Malawi cominciò a promuovere l’agricoltura commerciale e a sostenere l’acquisizione di terreni per conto di investitori, anche stranieri, interessati a condurre un’agricoltura su larga scala. L’obiettivo era di incoraggiare gli agricoltori locali a sostituire, tramite alleanze con grandi società, le produzioni agricole tradizionali come riso e manioca con piantagioni di canna da zucchero. Il prodotto doveva poi essere venduto a grandi fabbriche di raffinazione.

Piccoli agricoltori in crisi

«Molti contadini hanno così iniziato a sradicare le antiche colture e a piantare canna da zucchero», spiega Luca Catalano Gonzaga, fotografo, autore delle immagini pubblicate in queste pagine, e attivista dei diritti umani. «La loro impresa si è però rivelata più difficile del previsto. Il problema è che la filiera della produzione di zucchero dev’essere alimentata, per poter produrre reddito, con un’irrigazione continua e abbondante e necessita di grandi investimenti e di vasti appezzamenti di terreno. La maggior parte degli agricoltori del Malawi gestiva campi di meno di un ettaro e non aveva i capitali necessari per aumentare la produzione. Così è stata costretta a vendere i propri terreni o, in alternativa, a sostenere costi elevati per la produzione delle piantagioni, indebitandosi e, nella stragrande maggioranza dei casi, a fallire».

L’ampliarsi delle terre destinate allo zucchero è proporzionale all’aumento dei livelli di malnutrizione, con l’agricoltura familiare e quella destinata al consumo locale che sono state fortemente penalizzate. «L’assenza di tutele per i piccoli contadini ha favorito ancora di più i grandi player, con una progressiva diminuzione di concorrenti indipendenti».

Land grabbing strisciante

La politica del governo a favore della canna da zucchero ha in pratica alimentato un fenomeno di appropriazione delle terre (land grabbing) strisciante. «I ricchi capi locali», continua Catalano Gonzaga, «hanno usato il loro potere per accaparrarsi la terra dai membri delle loro comunità e venderla agli investitori. Questo è diventato un grosso problema, perché intere comunità, perdendo la terra, hanno perso il proprio sostentamento». Anche gli agricoltori rimasti indipendenti sono stati via via costretti a vendere il proprio prodotto a prezzi dettati da altri. Non solo. Pure l’impatto sull’ambiente si sta rivelando pesante, sia per l’impoverimento progressivo del suolo e la perdita di biodiversità, sia per la contaminazione del terreno e delle risorse idriche a causa dell’uso massiccio di fertilizzanti e diserbanti chimici.

Un comparto in crescita

Ciononostante, lo zucchero è sicuramente diventato per il Malawi un elemento di ricchezza. Come lo è diventato per chi opera nel settore. Il processo di trasformazione nella produzione agricola è stato accompagnato da un processo analogo nella fase industriale, con l’espansione dei grandi soggetti della filiera.

Una delle maggiori società presenti in Malawi è la Illovo Sugar, che è diventata il primo produttore zuccheriero in Africa, con unità agricole e manifatturiere (raffinerie di zucchero) in sei Paesi della regione australe. Benché formalmente sudafricana, è in realtà di proprietà della britannica Associated British Foods, secondo produttore di zucchero al mondo, che possiede il 51% del pacchetto azionario della Illovo.

In Malawi, Illovo Sugar possiede due mulini, uno a Nchalo, nel sud, e uno a Dwangwa, nella Regione Centrale. I mulini si trovano in quei due luoghi perché è là che l’azienda gestisce le sue proprietà: 13.300 ettari a Dwangwa e 20.925 a Nchalo. Ha la capacità di produrre ogni anno 2,4 milioni di tonnellate di canna da zucchero. Il 60% della produzione è venduto ai consumatori nazionali, il resto ai mercati industriali, con in testa l’Unione Europea e gli Stati Uniti. Nel 2021, secondo gli ultimi dati disponibili, lo zucchero ha contribuito per circa il 10% al Prodotto interno lordo malawiano, per circa il 35% al settore agricolo e per il 9% ai proventi delle esportazioni. L’industria impiega direttamente 11.552 persone (compresi i lavoratori stagionali e non permanenti) e sostiene 3.434 persone tra i produttori.

Campi infuocati

Numeri così positivi mal si accoppiano però alla situazione a monte e nei campi di canna la dolcezza dello zucchero è un’eco lontana. Sul terreno il lavoro è molto duro. I contadini hanno in dotazione un machete per tagliare le canne e una tuta protettiva.

Per facilitare il taglio della canna, i contadini danno fuoco alla piantagione. Così, quando entrano nel campo, sono investiti da nuvole di fuliggine che li avvolgono interamente. Le tute sono una protezione relativa anche perché, dopo qualche mese di utilizzo, sono fuori uso. I tagliatori si trovano così a lavorare in un ambiente in cui è difficile respirare e dove il calore rende faticoso qualsiasi movimento. Per evitare il calore eccessivo del sole, si recano nei campi la mattina presto e sospendono all’ora di pranzo, che è anche il momento più caldo della giornata.

Una tendenza internazionale

Lo scenario del Malawi non è dissimile da quello che si può trovare in altri Paesi africani e risponde a una crescente domanda del mercato dello zucchero, per motivi alimentari e non solo. Certo, l’aumento della popolazione e dei livelli di redditi spingono in alto la richiesta di zucchero grezzo, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo. Secondo stime della Fao e di Ocse, il consumo di zucchero in Asia è quello che crescerà di più (in termini assoluti) e rappresenterà più della metà del consumo globale entro il 2030, visto l’aumento della domanda di prodotti dolciari e bevande analcoliche. Anche l’Africa chiederà più zucchero per via della crescita demografica, benché il consumo si stima rimanga a livelli ben inferiori rispetto a quelli asiatici. Accanto all’impiego in ambito alimentare, però, si sta assistendo a una sensibile crescita della domanda di bioetanolo e biocarburanti in genere, in considerazione del loro minore impatto ambientale. Il bioetanolo in particolare si utilizza come combustibile pulito per stufe, camini e veicoli, miscelato a benzina. E il bioetanolo si ottiene anche dalla canna da zucchero, motivo in più per estendere le coltivazioni.

I principali produttori di canna da zucchero sono oggi Brasile, India, Thailandia e Cina. Anche l’Africa è un importante produttore, soprattutto Paesi come Tanzania, Eswatini ed Etiopia, tuttavia il settore è ancora in via di sviluppo e deve fare i conti con la scarsità di investimenti e la mancanza di tecnologie avanzate. Ma la sfida principale, guardando anche all’esperienza del Malawi, è quella di riuscire a coniugare gli sforzi per incrementare la produzione a quelli per redistribuire la ricchezza prodotta rispettando al contempo i diritti dei lavoratori e delle comunità locali.

Questo reportage fa parte di un progetto fotografico, Land and Ocean Grabbing, promosso dall’Associazione Witness Image e sostenuto dalla Fondazione Nando ed Elsa Peretti.

Questo articolo è uscito sul numero 2/2023 della rivista Africa. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop

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