“Tolo Tolo” mi è piaciuto e vi spiego perché

di Stefania Ragusa

Non sono una fan accanita di Checco Zalone e mi tengo lontana, di solito, dai film di cui parlano tutti. L’anteprima di Tolo Tolo (nelle sale dal 1° gennaio) però l’ho messa in agenda senza incertezze: viste le polemiche seguite alla diffusione del suo trailer e gli attacchi un po’ sgangherati rivolti anche ad Africa per avere chiesto un parere ai suoi lettori, mi sembrava il caso di andare il prima possibile a vedere con i miei occhi come stessero le cose.
Ritengo di aver fatto bene: il film fa ridere amaro e anche di gusto, è creativo nella sua dichiarata scorrettezza politica e, attraverso paradossi, battute e un’accurata rassegna di caratterizzazioni e di stereotipi, riesce a far decollare un messaggio autenticamente antirazzista. Ma non perché ci siano prese di posizione o denunce dichiarate. L’antirazzismo di Tolo Tolo sta in primo luogo nella scelta di raccontare un mondo pieno di sbavature, incongruenze, meschinità mettendoci dentro (non fuori, non accanto) anche l’Africa, i migranti e gli aspiranti tali. Poi, sta nella satira, che investe tutti ma, a ben vedere, soprattutto alcune modalità molto italiane:  paesani di Spinazzola, imprenditori fuggiti per sottrarsi al fisco e alla burocrazia,  giornalisti paraculi,  nostalgici del ventennio, e anche certe vertiginose e inesplicabili ascese politiche…  La satira, come è noto, non serve (solo) a ridere ma soprattutto a riflettere. È una scintilla che può accendere il pensiero e l’autocritica.

La trama è semplice: Checco è un imprenditore visionario e pataccaro, che accumula debiti e consegna fregature a tutto il parentado. Incalzato dal fisco e dalla polizia, fugge in un imprecisato Paese africano, che assomiglia molto al Kenya ma risulta popolato da senegalesi, pensando che lì sia più facile rimettersi in gioco. Un commando terrorista assalta però il villaggio e anche il resort in cui il nostro lavora come cameriere. Lui viene dato per disperso e poi per morto e decide allora di affrontare con un gruppo di migranti il viaggio per rientrare in Europa. Ovviamente sarà un viaggio surreale. È probabile che qualcuno contesti l’Africa approssimativa che emerge dal racconto e anche la ricostruzione, troppo soft, della traversata del deserto, della permanenza in Libia e della navigazione. Andrebbe tenuto a mente però che si tratta di un film comico, molto prossimo a un cinepanettone, e non di un documentario o di una narrazione storica e filologica.

Eviterò di entrare nei dettagli per scongiurare l’effetto spoiler (mi è stato chiesto espressamente). Ma una scena mi è sembrata superlativa. È quella in cui Checco, sul camion sovraccarico che sta trasportando i migranti nel deserto e al culmine dell’insofferenza, si alza in piedi e comincia a farneticare con pose, toni e concetti mussoliniani. Allora si sente una voce (che per inciso è quella dello scrittore senegalese Mohamed Ba, che ha una parte nel film): «Sono un medico, fatemi passare». Si avvicina, sente il polso, il cuore, e dice al nostro di non preoccuparsi: è solo fascismo». Checco sgrana gli occhi: fascismo? «Può capitare a tutti, in particolare nei momenti di forte stress». «Come la candida?». Il dottore si schermisce: trova il  paragone ben strano. E taglia corto con una bella frase fatta: il fascismo si cura con l’amore.
Passano i giorni e quasi alla fine del film  ritroviamo il dottore, ormai arrivato in Italia, a un festival multiculturale, intento a discettare di fascismi e razzismi davanti a un pubblico adorante e a vendere come proprio il paragone con la candida. Checco ovviamente è lì, lo sente, chiede le royalties per la citazione. Quello che curava il fascismo con l’amore però finge di non conoscerlo. Coerenza e sentimento, d’altra parte, sono cose distinte. E, a prescindere dal colore della pelle, invocando il secondo accade sovente di sacrificare la prima.

(Stefania Ragusa)

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