La resistenza di Khartoum

di claudia

di Mario Giro

In Sudan un colpo di stato ha bruscamente interrotto la transizione democratica. Da mesi le piazze sono in agitazione. I militari al potere non hanno esitato a sparare sui manifestanti che protestano contro le brutalità dell’esercito e l’inerzia della comunità internazionale

Non sono decollati i nuovi colloqui dell’ONU sul Sudan pensati per risolvere la crisi innescata dalle dimissioni dell’ex premier Hamdok, ed ora messi in sordina dalla guerra in Europa. La società civile sudanese e le altre organizzazioni che avevano sostenuto la transizione democratica non ne vogliono sapere di parlare con i militari e sospettano anche che il rappresentante delle Nazioni Unite, il tedesco Volker Perthes, sia troppo vicino all’esercito o abbia un’agenda nascosta.

Il colpo di stato del 25 ottobre, diretto dal capo dell’esercito e presidente provvisorio generale Abdel Fattah al-Burhan, ha fatto totalmente deragliare una delicatissima transizione tra militari e civili che era stata montata con grandi difficoltà dopo la fine del regime di Omar al-Bashir nel 2019. Le associazioni, i sindacati e le organizzazioni giovanili che chiedono più democrazia –riuniti nelle forze per la libertà e il cambiamento (FFC)- non demordono e continuano a premere perché i militari lascino la presa sul governo del paese, malgrado ogni giorno si contino numerosi morti per strada.

L’annuncio dell’ONU di nuove trattative ha ricevuto un’accoglienza fredda se non addirittura contraria da parte di molte sigle pro-democrazia. In realtà sia l’esercito che la società civile si sentono gli artefici della nuova fase del Sudan post-Bechir: la piazza afferma che senza la spinta popolare il regime non sarebbe mai caduto; l’esercito risponde che nulla sarebbe avvenuto senza il suo appoggio. Le FFC hanno dichiarato di poter partecipare ai colloqui solo a condizione di rimuovere il regime del colpo di stato, riferendosi proprio ad al-Burhan e al suo vice Hemetti. L’attuale fase di incomunicabilità tra le parti nasce dal fatto che il tentativo dell’esercito di riportare al governo un premier depotenziato non è piaciuta alla piazza, che ha preferito sacrificare Hamdok piuttosto che cedere. Dal momento che tale ipotesi intermedia era stata sostenuta dallo stesso segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, ora tra le FFC nessuno si fida più.

La mossa dell’ONU era stata accolta favorevolmente da Stati Uniti, Regno Unito, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita ed Egitto, così come precedentemente i medesimi paesi avevano sostenuto il fallito ritorno di Hamdok con l’accordo del 21 novembre 2021. L’opposizione sudanese respinge la nuova iniziativa e sembra attestarsi su posizioni rigide, sicura di avere il pieno appoggio della opinione pubblica. Dal canto suo l’esercito pensa di avere dalla sua la maggior parte dei settori economici, una fetta consistente delle élite regionali e forse anche i ribelli beja dell’est (zona Port Sudan). Un sostegno più diretto per il generale al-Burhan viene attualmente dal Cairo anche se il vicepresidente, generale Hemetti, dopo essersi recato ad Addis Abeba per incontrare il primo ministro Abiy Ahmed, acerrimo nemico degli egiziani a causa della questione del Nilo e della Great renaissance dam (GERD la diga costruita dalla Salini), ha compiuto un altro strappo anti-Cairo andando in vista a Mosca dopo l’inizio dell’offensiva in Ucraina.

Tra il presidente e il suo vice si sta aprendo una falla che potrebbe avere delle ripercussioni sullo svolgimento di tutta la transizione. Anche i partiti sudanesi restano divisi sulla proposta dell’ONU: favorevole lo storico Umma Party, contrario l’altrettanto longevo Partito Comunista. La controversia tra Consiglio di sovranità a guida militare e FFC resta molto polarizzata: queste ultime non vogliono sedersi ad un tavolo con l’esercito per non offrirgli nemmeno una parvenza di legittimità. Senza tale riconoscimento nessuna trattativa può decollare. Intanto i militari continuano a gestire il paese e per strada aumentano le vittime della repressione. La comunità internazionale è considerata dalle forze del cambiamento ancora come troppo accomodante nei confronti di al-Burhan che ha mutato sia la composizione del consiglio di sovranità che quella del governo. L’unica casella vuota per il momento è quella di primo ministro, rimasta vacante dalle dimissioni irrevocabili di Hamdok. Di fronte all’intransigenza della società civile, i militari sono tentati di riempirla con uno dei loro, mettendo fine all’attuale fase di apparente stallo. Il soffocamento dell’opposizione va avanti anche se le FFC sono convinte di poter resistere più a lungo che al tempo di al-Bashir perché maggiormente strutturate mediante i comitati di resistenza di quartiere. E’ questa la principale ragione per la quale respingono ogni possibile nuova partnership con i militari.

Pur criticando l’inflessibilità della società civile, numerosi osservatori ammettono che non è facile immaginare un processo politico di dialogo in un momento di forte repressione. Le Nazioni Unite sono sempre più criticate per non riuscire ad ottenere la fine delle violenze: finché il militari continueranno a sparare sui manifestanti e ad arrestare civili, nemmeno l’ONU verrà ascoltata. La guerra a Kiev pare gettare un cono d’ombra su questa crisi (come su altri scenari africani) ma ciò è vero solo in parte: l’opposizione si ispira alla resistenza ucraina e mette in imbarazzo il regime che si è astenuto durante l’assemblea generale a New York sulla mozione di condanna dell’aggressione russa. Ci sarà da vedere se gli effetti di ciò che accade in Ucraina saranno in grado di cambiare anche gli instabili equilibri a Khartoum.

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