di Andrea Spinelli Barrile
Ormai, a 60 anni dalla stagione delle indipendenze, “è molto chiaro che non è con la zappa dei greci che noi zapperemo i nostri orti”. A dirlo, in un’intervista con Africa Rivista, è Filomeno Lopes (foto di apertura), scrittore, filosofo e giornalista a Radio Vaticana, nato in Guinea Bissau, al quale abbiamo chiesto di darci uno sguardo africano sul fermento politico che osserviamo in Africa occidentale, regione protagonista negli ultimi anni di numerosi colpi di Stato (in Burkina Faso, Mali e Niger i più noti, ma anche in Guinea e Ciad) e di una tornata elettorale, quella in Senegal, che ha ribaltato diversi paradigmi con i quali noi europei guardiamo abitualmente all’Africa.
In particolare, abbiamo parlato con Lopes del sostegno e del consenso che le giunte militari saheliane sembrano avere da parte dei cittadini di quei Paesi: le immagini che mostrano l’arrivo del burkinabé Ibrahim Traoré e del maliano Assimi Goita a Niamey, in Niger, dove hanno firmato il primo atto del’Alleanza degli Stati del Sahel, il primo impegno verso una Confederazione tra nazioni, sono impressionanti e mostrano le auto letteralmente bloccate dal tappeto di persone che vogliono salutare i militari, che li acclamano, che urlano slogan contro la Francia, l’Europa, gli Stati Uniti.
Di recente, una manifestazione anti-francese a Ouagadougou è stata addirittura dispersa dalla gendarmeria perché i manifestanti lanciavano escrementi contro l’ambasciata francese. Quello che sta accadendo nella regione è, secondo Lopes, una sorta di riflessione collettiva improntata al capire “se dovremo continuare a copiare gli altri o iniziare una riflessione, come diceva Cabral, a partire dalle nostre situazioni e con i piedi ben piantati per terra: […] non possiamo continuare a prescindere dalle nostre culture, pena costruire il futuro su basi sbagliate”.
In questo clima di confusione, la percezione europea di ciò che avviene nel Sahel è spesso offuscata da un dato demografico: è difficile, per noi continente anziano, comprendere (e in parte accettare) che lo stato delle cose possa cambiare, specialmente se “a nostro” sfavore: “Diceva Gadamer che il futuro dipende sempre dalle origini, quelle origini che la maggior parte di noi non ha, anche e soprattutto la mia generazione: ci mancano le radici storiche. E quando tu erediti una responsabilità senza una coscienza storica profonda dove vai? […] Tutti i popoli hanno sofferto, ma nessun popolo della storia ha mai visto in dubbio il suo statuto antropologico e, di conseguenza, ha subito una tanto forte aggressione culturale. E io direi anche, per certi versi, un genocidio culturale”.
Filomeno Lopez spiega che “le culture africane” sono state ridotte a un folklore: “La tua lingua, che è il modo in cui tu pensi e ti posizioni nel mondo, non è più una lingua ma un dialetto, la tua religione, ovvero le tue aspirazioni più profonde, è ridotta a un feticismo e, per secoli, questo ti mettono in testa, tu che cosa puoi credere?”. Ma il risultato prodotto oggi è una generazione “che è meno legata a queste porcherie coloniali che ci hanno messo in testa e che si ribella, anche col rischio che la ribellione, da sola, possa essere fatale”. Lopez cita gli insegnamenti di Cheik Anta Diop, le sue posizioni post-coloniali e culturali che stanno avendo la meglio, nelle nuove generazioni, rispetto alle politiche e all’approccio di Senghor, “e questo, ad esempio, era presente nel Pastef”, il partito che ha vinto le elezioni in Senegal, “fin dalle prime riunioni”.
“La consapevolezza è che non abbiamo altra scelta: dobbiamo cambiare paradigma, ovvero capire che finché noi continueremo a vedere i nostri problemi, passato presente e futuro, con il paradigma occidentale noi non conosceremo mai l’esaltazione della libertà”. Lopez sintetizza così l’attuale paradigma, quello che andrebbe ribaltato: “Siamo ancora oggi l’unica popolazione del mondo che continua a pensare ciò che non vive e a vivere ciò che non pensa. Il che ci porta ad essere consumatori di ciò che non produciamo e produttori di ciò che non consumiamo, a tutti i livelli della vita”.
Il problema, per la narrazione di tutto questo in Europa, è che “il giornalismo nostro è rimasto con vecchi paradigmi e continuiamo a fare domande in base a questi paradigmi. Quello che ci stanno chiedendo è di uscire dalla logica infocratica normale. Non ci rendiamo conto che siamo anche noi vittime di questa concezione che dice che il mondo non può essere organizzato diversamente”.
La paura, spiega Lopez, è che “l’Africa cominci a parlare con una sola voce” e, per questo, “anche la Chiesa e i religiosi musulmani” si sono schierati dalla parte delle popolazioni: “Hanno capito che il cambiamento deve avvenire, che non si può continuare così. Ora, tutti i cambiamenti sono una sfida, è più facile dire ‘si è sempre fatto così’”.
Con Filomeno, ci siamo anche soffermati su quella che è una preoccupazione di molti: che sia in atto un semplice cambio di colone, dalla Francia alla Russia o la Cina. “Il pesce si sbaglia ogni volta che pensa che il pescatore è lì per liberarlo dalla rete”. Secondo Filomeno Lopez quello che serve in Europa è “un giornalismo che capisce le aspirazioni di questo popolo e questa gioventù e che deve fare la sua, smettendo di fare domande legate a vecchi modi di pensare. Perché la loro lotta è una lotta per l’umanità”.
Foto di Paolo Vezzoli