Io capitano, un film doloroso, commovente, necessario

di claudia

di Annamaria Gallone

Leone d’Argento per la migliore regia e premio al miglior attore esordiente per il nuovo film di Matteo Garrone, IO CAPITANO, in competizione alla recente 80° Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia (30 agosto/9 settembre). Premi meritatissimi, per un’opera disperata e necessaria. Un film che ti strappa l’anima, le cui immagini non si dimenticheranno facilmente.

Una storia di emigrazione di estrema originalità poiché il regista gira la camera e ci presenta i protagonisti da un’angolazione diversa. Noi ormai siamo abituati agli sbarchi che ci mostrano continuamente i notiziari e gli uomini, donne e bambini arrivati fortunosamente o morti in mare in questo che è l’olocausto odierno, sono diventati semplicemente dei numeri. Ma Garrone ci vuole restituire la realtà umana, come d’altronde ha sempre fatto in tutti i suoi film.

Mi sembrava che mancasse un racconto in forma visiva del viaggio, ha detto, soprattutto della parte del viaggio che si svolge dall’altra parte del mare. Volevo fare un controcampo, ribaltare la prospettiva, guardare a cosa succede prima».

Comincia così a raccontare la vita dei suoi protagonisti dalla loro vita nel Paese d’origine, il Senegal. Seydou (Seydou Sarr) e Moussa (Moustapha Fall), sono due cugini adolescenti che vivono a Dakar, in una situazione di dignitosa povertà, due adolescenti normali, attaccati al telefonino per ascoltare la musica rap, indossano Nike fake e una scolorita magliette con calciatori famosi. Da tempo lavorano di nascosto per raggranellare i soldi e andare in Europa per affermarsi come musicisti. Quando Seydou confessa alla mamma il loro progetto, la donna si adira: Tu devi respirare la stessa aria che respiro io! E spiega al figlio che l’Europa non è quella che si vede nelle pubblicità, anche lì c’è miseria, c’è gente che muore per strada, lui ribatte che il tetto della casa sta per cadere e che manderebbe soldi alle sorelline che devono poter studiare, ma Seydou e Moustapha decidono dunque di andarsene di nascosto anche se è doloroso abbandonare il nido degli affetti sicuri. Dopo aver ricevuto il permesso di partire dagli antenati defunti grazie all’intercessione di uno stregone, comprano un “pacchetto” che garantisce loro il viaggio nel cuore dell’Africa in carovana e in auto, e a Tripoli imbarco su un aliscafo, ma il loro viaggio si trasforma molto in fretta dal road movie che si immaginavano a storia dell’orrore.

Attraverso il Mali, il Niger fino in Libia, i due ragazzi cominciano a capire che il loro itinerario è costellato di sfruttatori che li spolpano, siano essi militari, banditi, interpreti, autisti, fornitori di passaporti falsi, scafisti, guide o semplicemente delinquenti. L’attraversata del deserto è una prova atroce e chi non ce la fa viene lasciato indietro a morire nella sabbia. Scaricati dal camioncino strapagato che li ha portati fino a un certo punto, devono continuare a piedi. Per fortuna hanno buone gambe e riescono a superare la prova: la sabbia rossa che ti acceca, l’acqua che non basta, il trattamento disumano. Ma la tragedia che li aspetta una volta arrivati in Libia, è anche peggiore. I banditi rapinano il cugino e lo portano via mentre l’organizzatissima mafia libica – che sistematicamente filtra l’accesso dei migranti nel Paese, estorcendo denaro in cambio della libertà – rinchiude Seydou in una prigione dove viene torturato e poi venduto come muratore. Grazie al lavoro e sostenuto moralmente e fisicamente da un africano più anziano di lui, il ragazzo viene liberato e ottiene i soldi necessari per imbarcarsi verso l’Italia, ma si mette alla ricerca affannosa di Moussa che, dopo una disperata ricerca, ritrova ferito gravemente a una gamba ormai in cancrena e lo convince ad imbarcarsi con lui. Il barcone è fatiscente, in pessime condizioni e tantissimi sono i passeggeri. Seydou dovrà essere il capitano perché lo scafista non vuole correre rischi, un capitano di sedici anni senza nessuna esperienza, che non sa nemmeno nuotare e si prende sulle spalle il mondo.

Riuscirà a raggiungere le coste siciliane e salvare sé stesso e i poveri passeggeri?

Io Capitano è anche un film di formazione, poiché i due adolescenti, a contatto con le ingiustizie e la cattiveria, diventano adulti.

Un film epico anche nella parte onirica: il film non vuole essere un mero racconto realista, che siano sogni o miraggi, sono pause poetiche che ti fanno respirare in questo viaggio dell’orrore e si innestano perfettamente nella vicenda.

Il regista ha saputo felicemente fondere la durezza di Gomorra e la lievità di Pinocchio, e Il riferimento più diretto e più ardito è l’Odissea che Garrone cita dichiarando la dimensione epica del viaggio dei migranti.

Pochi gli effetti speciali, una narrazione apparentemente piana, meravigliosa la fotografia di Paolo Carnera che sa giocare con la luce sui volti scuri e si illumina sulle dune del deserto. Perfetta anche la colonna sonora (firmata da Andrea Farri) che sa sottolineare senza alcun cedimento retorico i momenti di gioia e quelli tragici senza mai strafare.

Il film è sottotitolato, parlato in wolof e francese, anche questa una scelta felice, come quella di fuggire da ogni pietismo o approccio etnografico.

E con molta modestia Garrone ha raccontato ai microfoni di Sky TG24:

Sono stato un intermediario in questo film, in realtà.Ho cercato di dare voce a chi di solito non ce l’ha e probabilmente la giuria ha premiato il modo in cui abbiamo raccontato questa storia, il fatto di calarci in una angolazione diversa da quella che di solito siamo abituati a conoscere, invece che essere da questa parte del mare, dall’occidente, siamo andati di là, dall’Africa verso l’Europa”.

 «Ho voluto mettere la macchina da presa dal lato opposto, dall’Africa verso l’Europa», continua il regista, «Ci sono tante forme di migrazione: chi migra per scappare da una guerra, chi migra per ragioni climatiche, chi per sfuggire alla disperazione assoluta. Qui, invece, ho voluto raccontare la storia di due ragazzi che sono disposti a rischiare la vita in cerca di un futuro migliore. Loro scappano da una povertà dignitosa, sperano di realizzare in Europa tutti i loro sogni. L’Africa è composta da 52 stati molto diversi tra loro e il 70 per cento della popolazione sono giovani, tra questi giovani c’è chi ha il desiderio di legittimo di un futuro che crede migliore. C’è chi sogna di diventare calciatore o rapper, e chi un lavoro normale in Europa. Questi ragazzi hanno cellulari, tv, l’accesso ai social, hanno una finestra spalancata sull’Occidente. Aspirano a un futuro migliore, così come noi da ragazzi desideravamo l’America, solo che loro devono rischiare la vita, c’è una profonda ingiustizia di fondo. Perché i loro coetanei possono andare in vacanza nel loro Paese, mentre loro se vogliono partire devono essere pronti a morire?».

E sottolinea la giustezza di queste parole anche Mamadou Kuassi, presente al fianco del regista al Lido, un ragazzo ivoriano fuggito dall’Africa insieme al cugino ormai diversi anni fa. Mamadou, che oggi vive a Caserta, ha attraversato il deserto e ha trascorso in Libia tre anni prima di poter partire per l’Italia: «Io sono riuscito ad arrivare, ma vorrei dedicare questo premio a tutte le persone che non sono riuscite ad arrivare.E quindi vorrei che fosse garantito il diritto ad avere un visto per viaggiare. Credo che questo sia lo strumento più adatto per bloccare il traffico di esseri umani».

 «Sono entrato in una cultura che non è la mia, per un film che non doveva essere su di loro ma insieme a loro. Loro mi hanno raccontato le loro storie, io ho dato la mia visione», continua Garrone.  Precisa che il suo è stato un lavoro corale e che per la sceneggiatura si è avvalso dell’aiuto di un ragazzo senegalese che oggi vive in Belgio, è sposato con un figlio, ma non ha ancora il permesso di soggiorno per potere essere presente a Venezia. Lui, come il protagonista del film Seydou, ha guidato a quindici anni, senza averlo mai fatto prima, una barca con oltre 250 persone a bordo. All’arrivo in Sicilia è stato poi arrestato come uno scafistae ha dovuto trascorrere sei mesi in carcere.

Il casting è stato fatto in Senegal, i due ragazzi non hanno mai recitato prima, ma sono entrati perfettamente nel loro ruolo. Seydou Sarr è straordinario, di una purezza incantevole e di un’intensità sconvolgente. Ti viene voglia di abbracciarlo stretto.

IO CAPITANO dovrebbe essere proiettato in Parlamento e in tutte le scuole perché i nostri ragazzi capiscano il loro privilegio di poter viaggiare liberamente, mentre ad altri è negato e anche in Africa per far capire qual è il duro prezzo da pagare per questo viaggio.

Dal 7 settembre il film è programmato in oltre 200 sale italiane, destinate a diventare molto più numerose visto il successo di pubblico e di critica.

Se non l’avete ancora visto, non perdetelo!

Io lo voto come film italiano per l’Oscar.

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