No, il coronavirus non ha fermato i jihadisti

di AFRICA

I gruppi jihadisti del Sahel e Boko Haram nell’area del Lago Ciad non hanno deposto le armi. Anzi, hanno intensificato i loro attacchi, nonostante l’emergenza coronavirus. Ogni giorno infatti da quell’area si registrano nuove vittime tra civili e militari. Eppure la notizia della cooperazione tra forze ribelli e governative nella remota città di Kidal, in Mali, per mettere in piedi alcuni centri per la quarantena, aveva fatto sperare che le attività terroristiche si potessero fermare (il Mali, negli ultimi anni, ha dovuto affrontare l’ondata separatista e, più recentemente, un drammatico aumento degli attacchi jihadisti). Il leader ribelle separatista Bilal ag Acherif, di base a Kidal, aveva lanciato un appello al governo «per unirsi e combattere un nemico comune». L’illusione tuttavia è durata poco, tanto che subito dopo è arrivata un’altra notizia: più di 20 soldati maliani sono stati uccisi da sospetti jihadisti nella regione settentrionale di Gao. I ribelli hanno attaccato anche un accampamento militare della città di Bamba, dove hanno rubato armi. Insomma nel Sahel gli attacchi si stanno intensificando. Sembra che i terroristi stiano approfittando del fatto che i governi dei Paesi di questa regione hanno spostato la loro attenzione: ciò che preoccupa di più è arginare la pandemia.

Una situazione simile si registra anche nell’area del Lago Ciad. Negli ultimi mesi Boko Haram ha intensificato i suoi attacchi. Una fazione del gruppo jihadista si è recentemente insediata nel bacino del lago, territorio che interessa gli Stati di Ciad, Nigeria, Niger e Camerun. In particolare, nelle zone semi-insulari e paludose, dall’inizio del 2020 l’organizzazione ha raddoppiato gli attacchi alle locali forze di sicurezza scatenando anche la controffensiva dell’esercito: durante l’operazione “Furia di Bohoma“, nell’area occidentale del Paese hanno perso la vita circa 1000 jihadisti affiliati a Boko Haram e 52 uomini dell’esercito regolare . Precedentemente, il 25 marzo scorso, un attacco contro una base militare ciadiana sull’isola di Bohoma ha causato la morte di 98 soldati. Il governo ha inoltre deciso di intensificare la presenza militare nell’azione di contrasto al gruppo terroristico, inviando altri militari in Niger e in Nigeria. La reazione del Ciad non si è fatta dunque attendere. N’Djamena dispone di un esercito forte ed estremamente deciso. Basta ricordare che quando Boko Haram è stato cacciato da molti territori, anche vasti, che era riuscito a conquistare, il merito è stato proprio all’esercito ciadiano. «Non c’è più nemmeno un membro di Boko Haram oggi in Ciad. È stata ripulita tutta l’area insulare ai confini con la Nigeria, il Niger e il Camerun»: sono le parole del Presidente della Repubblica, Idriss Déby, intervistato dalla televisione di Stato, proprio dalla regione del Lago Ciad dove si trova da 12 giorni per coordinare il contrattacco al gruppo armato nigeriano. A guidare le operazioni sul posto è lo stesso generale-Presidente, in qualità di capo delle Forze armate. Parole, viene da pensare, che servono più a rassicurare l’opinione pubblica che a rispecchiare la vera situazione sul campo.

Anche la Somalia sembra non avere pace. L’appello del segretario generale dell’Onu, António Guterres, per «un immediato cessate il fuoco globale, mettendo da parte violenza, diffidenza, ostilità e animosità per concentrarsi sulla battaglia al virus, non dell’uno contro l’altro», è rimasto lettera morta. Anche qui gli attacchi di al-Shabaab si sono moltiplicati, così come i raid americani contro le basi dei terroristi. Raid con i droni che hanno superato, per numero, quelli effettuati in Siria e Iraq messi insieme. I terroristi prendono di mira, in particolare, le basi delle forze di pace “Amisom”, quelle dell’esercito somalo e di leader locali non allineati. Oltre alla guerra guerreggiata ve n’è anche una di propaganda. Da una parte il governo somalo che rivendica la riconquista di territori nelle mani di al-Shabaab, dall’altra i terroristi che attribuiscono ai “crociati” la diffusione dell’epidemia di coronavirus nel Paese. Al-Shabaab, è noto, conta molto sull’appoggio della popolazione. Si fa carico, spesso, della distribuzione di cibo e denaro in regioni che il Governo di Mogadiscio non riesce a raggiungere perché non le controlla. Dal punto di vista dell’epidemia le autorità somale stanno cercando di farvi fronte come possono, ma se dovesse esplodere – attualmente i contagiati non raggiungono la decina – al-Shabaab potrebbe impedire, come già accaduto in passato, l’intervento delle organizzazioni internazionali. La Somalia, da sola, può ben poco. Secondo le stime dell’Onu, oltre il 50 per cento della popolazione è a rischio fame. 2,7 milioni di persone non dispongono di acqua potabile e 2,6 vivono in campi profughi.

(Agi)

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