Burkina Faso, primavera a metà

di AFRICA
bandiera del burkina faso

Reportage dal paese de Sahel protagonista di due rivolte popolari per la democrazia (dal numero 06/2016 di Africa)

 

burkina fasoLa città di Ouagadougou ci accoglie con sciami di motorini cinesi che sfrecciano ovunque alzando nuvole di polvere. A tenere puliti i marciapiedi ci pensano le donne della “brigata verde”, un pacifico esercito di solerti netturbine, presenti ad ogni incrocio. Le capitale del Burkina Faso è tornata quella di sempre: caotica e vitale. Il “Grand Marché” il mercato principale, fulcro della vita economica e sociale, è il luogo-simbolo del dinamismo e della voglia di riscatto del popolo burkinabé. Un popolo che, il 31 ottobre 2014, ha saputo liberarsi dell’ingombrante figura di Blaise Compaoré (il presidente rimasto al potere per 27 anni e che aveva annunciato l’intenzione di ricandidarsi) e che poi, nel settembre del 2015, ha difeso la democrazia (con l’aiuto dell’esercito) dal golpe intentato dalla Guardia Presidenziale, fedele all’ex capo di Stato. Cos’è rimasto oggi di quella straordinaria mobilitazione popolare che aveva suscitato grandi speranze?

Futuro incerto

Idrissa, giovane artista di Ouagadougou, ha mantenuto vivo l’entusiasmo e la passione politica. «Dopo decenni di silenzio, siamo scesi in strada per riaffermare la sovranità popolare», ricorda con fierezza. Il vuoto di potere che si era creato all’indomani della rivoluzione avrebbe potuto innescare una pericolosa guerra civile con regolamenti di conti e spargimenti di sangue. Ma non è accaduto. «L’integrità e la coesione sono per noi valori fondamentali», spiega nel nuovo libro Burkina Faso, Bénéwendé Sankara (nessun legame di sangue con Thomas Sankara, l’eroe nazionale, il presidente burkinabé che governò il Paese dal 1984 al 1987 prima di essere ucciso in una congiura oscura), avvocato e difensore dei diritti civili. Ma la democrazia non è ancora riuscita a cambiare il volto del Paese. E la delusione serpeggia in molti ambienti, assieme alla rassegnazione. «Speravamo che la nostra situazione migliorasse», ci dicono alcuni giovani. «E invece siamo ancora senza lavoro e senza prospettive per il futuro». La “primavera” del Burkina non è ancora sbocciata. Di “rivoluzione perduta” parlano con severità numerosi giornalisti, intellettuali e diplomatici che preferiscono mantenere l’anonimato.

Democrazia fragile

Il Burkina Faso, grande quasi quanto l’Italia, resta tra i Paesi più poveri al mondo. L’economia dipende al 90% dall’agricoltura (spesso praticata a livello di sussistenza). Metà della popolazione, circa 8 milioni di persone, vive sotto il livello di povertà con un’aspettativa di vita che si aggira intorno ai 55 anni. Negli ospedali si muore per mancanza di medicine. Il neopresidente Roch Marc Christian Kaboré ha realizzato una riforma della sanità che garantisce l’assistenza gratuita ai bambini fino ai cinque anni e alle donne incinte.

Ma i giovani artefici dell’insurrezione vorrebbero di più: più lavoro e meno corruzione. Vorrebbero far piazza pulita della vecchia nomenklatura e di tutti quei faccendieri e affaristi che hanno prosperato col vecchio regime. I portavoce di questa “generazione ribelle” esprimono il disagio con la musica. Tra gli artisti più amati del momento c’è Dicko Fils, un cantante di etnia peul. «La rivolta popolare, pur non avendo risolto i problemi, ha dato una scossa al Paese», dice. «In tanti vorrebbero un cambio di marcia della politica, una svolta radicale. Ma non è facile cambiare una nazione rimasta incatenata per quasi trent’anni». Servirà tempo per smontare quel sistema di corrut- tele, clientelismo e legami opachi. E non è detto che si riesca a farlo: la democrazia è ancora fragile.

Occhi aperti

L’attentato terroristico di matrice jihadista del 15 gennaio 2016 all’hotel Splendid e al caffè-ristorante “Le Cappuccino” (bilancio: 27 morti e 33 feriti) ha accentuato il senso di vulnerabilità e insicurezza. È stato un vero shock per la popolazione (61% musulmani, 23% cristiani, 16% seguaci di religioni tradizionali), che ha sempre vissuto la fede in modo mite e tollerante. Le tensioni che attraversano e lacerano il Sahel – territorio di numerose cellule jihadiste – diffondono nuove inquietudini a Ouagadougou, dove c’è anche chi teme un possibile ritorno al passato. «Molti esponenti del vecchio regime si sono riciclati nel nuovo governo», spiega Pascal Kolesnore, sacerdote e analista politico. «Ma i burkinabé hanno sviluppato gli anticorpi contro ogni deriva autoritaria. La gente tiene gli occhi aperti, se necessario tornerà in piazza, non si lascerà più imbrogliare. Sono ottimista: la pressione della società civile spingerà il Burkina Faso sulla strada dello sviluppo e della democrazia».

(Alessio Malvone)

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