Accogliere conviene. Lo dimostra il “caso” Uganda

di Stefania Ragusa

Nelle graduatorie internazionali sullo sviluppo umano, la crescita e la ricchezza, l’Uganda occupa posizioni piuttosto basse. Il reddito pro capite medio è di 657 dollari l’anno, l’aspettativa di vita non supera i 60 anni  il tasso di analfabetismo arriva al 19% per gli uomini e al 33% per le donne. La Banca Mondiale lo considera infatti uno stato a basso reddito, che soffre anche per via della progressiva riduzione delle terre coltivabili.

Eppure il paese africano governato da Yoweri Museveni (da ben 33 anni) occupa il terzo posto – dopo Turchia e Pakistan-  nella classifica mondiale dei paesi che ospitano il maggior numero di rifugiati (1.293.582 al 30 gennaio 2019,  fonte UNHCR) e pratica una politica dell’accoglienza tra le più aperte. La Bbc segnalava questa “stranezza” già tre anni fa, con un reportage firmato da Catherine Byaruhanga che evidenziava, tra le varie cose, come ai richiedenti asilo – provenienti in massima parte da Sud Sudan, Repubblica Democratica del Congo e Burundi – fosse risparmiata anche la lunga trafila burocratica degli accertamenti che caratterizza altrove i procedimenti di accoglienza. Una volta accordato lo status di rifugiato, ai nuovi arrivati  viene riconosciuto il diritto di accesso ai servizi essenziali (in particolare, sanità e istruzione), quello di lavorare ed intraprendere attività imprenditoriali e la piena mobilità sul territorio nazionale.

Come si spiega tutto ciò? Se immaginate che alla base ci sia una penuria demografica siete fuori strada. La popolazione ugandese è in crescita (la media si è attestata sul +3% annuo), si stima che nel giro di trent’anni potrebbe arrivare a 100 milioni (oggi sono 43 milioni, al momento dell’indipendenza erano 7 milioni) e la terra, risorsa un tempo abbondante nelle regioni nord-occidentali del paese, ha cominciato a scarseggiare, accompagnata da un deterioramento delle condizioni ambientali generale e preoccupante.

Sara de Simone, ricercatrice presso il dipartimento di Sociologia dell’Università degli Studi di Trento, in un articolo pubblicato da Ispi nel suo recente dossier sulle migrazioni africane interne, ipotizza che alla base ci sia un calcolo lungimirante del governo.

«La crisi in Sud Sudan e il conseguente flusso di rifugiati verso l’Uganda ha consentito a Museveni di riconquistare l’attenzione dei donatori internazionali dopo una serie di scandali di corruzione. Tra il 2014 e il 2018 l’UNHCR ha lanciato appelli per un totale di 4 miliardi di dollari per far fronte all’emergenza rifugiati. Anche se erogati solo in minima parte, questi fondi vengono utilizzati dal governo ugandese non soltanto per l’accoglienza diretta ai rifugiati, ma anche per perseguire altri obiettivi», scrive. «L’apertura di refugee settlements nella regione risponde infatti non solo ad una logica geografica, legata alla prossimità al confine con il Sud Sudan e la RDC, ma anche ad una logica di sviluppo, che mira ad attrarre risorse esterne nella regione». Infatti gli aiuti umanitari destinati all’Uganda per la gestione dell’emergenza rifugiati non riguardano solo le derrate alimentari: si tratta in buona parte di investimenti per infrastrutture e servizi di base. La presenza dei rifugiati è spesso richiesta dalle comunità locali perché porta con sé la costruzione di scuole, ospedali, centri per la formazione, pozzi, strade, mercati.

«Questo modello è stato messo sotto pressione dai numeri molto elevati di persone in cerca di rifugio giunte nel paese negli ultimi due anni. Resta, tuttavia, un’esperienza interessante e unica in Africa Orientale», conclude De Simone. «Un’esperienza che dimostra ai governi della regione e del mondo come una politica di accoglienza aperta possa portare anche dei benefici».

(Stefania Ragusa)

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