Sudan, i militari: «Riprendiamo il dialogo»

di Enrico Casale
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In Sudan, dopo la strage del 3 giugno al sit-in di Khartoum, il dialogo tra il Consiglio militare di transizione e l’opposizione è stato interrotto. I vertici delle forze armate hanno però dichiarato di essere disposti a riaprire i colloqui, anche se rimangono fermi su alcuni punti e, in una conferenza stampa, hanno respinto diverse richieste avanzate dai civili.

Su internet, per esempio, i soldati vogliono mantenere l’attuale oscuramento perché, a loro parere, i social network «portano troppe informazioni false, a volte pericolose». In merito al massacro del 3 giugno, i militari rifiutano un’inchiesta internazionale e giudicano che l’ufficio del pubblico ministero di Khartoum sia sufficientemente preparato per condurre le indagini. Le prime conclusioni dell’inchiesta, hanno affermato i generali, arriveranno già sabato.

Sulle ragioni del bagno di sangue, i vertici delle forze armate hanno presentato una versione difficile da credere: lo smantellamento del distretto di Colombia sarebbe degenerato perché l’esercito ha disobbedito agli ordini o è stato erroneamente guidato. Una versione contraddetta da più testimonianze e da numerosi video.

Un’altra richiesta dei civili è che i soldati, incluse le milizie che li supportano (come la Rapid Support Forces), siano ritirati dalle strade. Il Consiglio militare di transizione ha risposto che la sicurezza è una prerogativa delle forze di sicurezza e che nessuno potrà interferire nella sicurezza del Paese.

I generali hanno anche parlato di colpi di Stato. Secondo loro, sono stati sventati due golpe negli ultimi giorni. Un gruppo di cinque soldati e un altro di quindici sono stati arrestati poco prima che tentassero di rovesciare il Consiglio militare di transizione.

Nonostante l’intransigenza, l’esercito chiede che venga riaperto il dialogo diretto. La comunità internazionale sta spingendo in questa direzione, incluso il segretario di Stato Usa per l’Africa.

Intanto l’ex presidente Omar al-Bashir è stato formalmente accusato di corruzione e di aver accumulato «una ricchezza illecita».

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