Lezioni di stile che invitano a guardare all’Africa con occhi nuovi

di claudia

di Marco Trovato – direttore editoriale della rivista Africa

Penso ci sia qualcosa di prodigioso nella capacità delle donne africane di portare in equilibrio sulla loro testa – sfidando le leggi della fisica, con portamento ed eleganza ineguagliabili – i fardelli della vita quotidiana: cataste di legno, caschi di banane, sacchi di carbone, bacinelle piene di abiti. A São Tomé, poche settimane fa, me ne stavo accovacciato su un piccolo ponte a osservare il viavai di donne che andavano al fiume per fare il bucato. Le ammiravo mentre scendevano e risalivano le sponde ripide e fangose con in testa enormi catini di indumenti e lenzuola. Contemplavo miriadi di tessuti che dopo essere stati lavati venivano stesi sui massi ad asciugare, formando enormi mosaici di stoffa variopinti.

A un tratto mi si è avvicinato un ragazzo, avrà avuto vent’anni. Abbiamo iniziato a chiacchierare del più e del meno, finché mi ha invitato a visitare la sua casa, che distava poche centinaia di metri, in un villaggio di pescatori. L’abitazione era costruita su una palafitta. Le assi di legno erano nere, logore, impregnate di umidità e muffa. Per tetto, una lamiera arrugginita. L’interno era buio, l’aria pesante. Ma nella penombra mi è apparso qualcosa di stupefacente: le pareti scure della baracca erano interamente tappezzate di poster che riproducevano quadri di pittori celebri: Monet, Renoir, Degas, Cézanne, Gauguin, van Gogh.

Quel giovane aveva voluto rivestire l’orizzonte grigio delle mura domestiche con grandi capolavori dell’arte. Ma non erano quei poster il motivo per cui mi aveva aperto le porte di casa. Voleva mostrarmi il tesoro di famiglia gelosamente custodito in un grosso baule. Era un abito elegante – un completo da uomo: giacca, pantaloni, cappello di feltro – color giallo canarino. Era protetto in una busta di plastica, conservato come una reliquia. «È il vestito più elegante del villaggio», mi ha spiegato il ragazzo. «Lo noleggiamo in occasione di feste, cerimonie, matrimoni, funerali, battesimi, compleanni». La gente, a turno, paga per indossare quell’abito, di cui un sarto locale allunga o accorcia l’orlo di pantaloni e maniche per adattarlo alle misure dell’interessato. Il cellulare del ragazzo era pieno di foto di villeggianti, vicini di casa, parenti, amici in posa con quel vestito scintillante. Sorridevano tutti, impettiti e compiaciuti.

Congo, Sapeurs. Foto di Daniele Tamagni

Quella galleria di ritratti e quella tappezzeria di poster a qualcuno potrebbero apparire kitsch, fuori luogo, pacchiani. I quadri dei grandi pittori non sono fatti per essere appesi nelle baracche, gli abiti eleganti non dovrebbero essere indossati tra i vicoli limacciosi di un villaggio di pescatori. L’Africa si prende gioco del nostro sguardo. Non smette di sorprendere e di meravigliare, svelando nei luoghi più impensabili l’insopprimibile, umano bisogno di bellezza, che prescinde dai contesti economici e sociali, anzi è spesso più impellente nei luoghi più difficili, marchiati dall’indigenza e della precarietà. Povertà e miseria non sono sinonimi. Entrambi i termini indicano situazioni di vulnerabilità economica e di sofferenza sociale. Ma la miseria implica una mancanza di risorse non solo materiali, ma anche culturali e talvolta morali, ha insomma a che fare con un disagio mentale e psicologico, con una percezione svilita di sé.

Nella povertà invece albergano la dignità, spesso la fierezza, i sogni e le ambizioni di riscatto, nonché l’incessante ricerca della bellezza e dell’eleganza – che portano luce e speranza, in contrapposizione all’incuria, al degrado e alla disperazione. «Lo stile non è nella merce, è nella mente», ha ben scritto su Repubblica Michele Smargiassi ricordando il fotografo Daniele Tamagni – una colonna della nostra rivista che ci ha lasciato troppo presto, nel 2017, non prima di averci lasciato scatti formidabili (come quello che accompagna questo testo) che invitano a guardare all’Africa con occhi nuovi. «Lo stile non si vende, è come il coraggio per don Abbondio, o ce l’hai o non ce l’hai, è una qualità interiore, una disposizione dell’anima verso il mondo, quella che ti mette sempre un gradino sopra le sue sciatterie, le sue banalità, le sue conformità».

Editoriale del numero di maggio-giugno della rivista Africa.

Foto di apertura: Daniele Tamagni

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