Sudan, dopo più di 100 giorni di guerra ancora nessuna luce

di claudia
darfur

Sono passati più di 100 giorni da quando in Sudan sono scoppiati combattimenti per il potere tra l’esercito e le Forze paramilitari di supporto rapido (Rsf), ma né gli scontri né la diplomazia indicano per il momento una fine imminente di un conflitto che, al contrario, sta già avendo ripercussioni umanitarie su tutta la regione.

Nel corso di oltre tre mesi di scontri almeno 3.000 persone sono state uccise. Più di tre milioni di sudanesi sono stati sfollati a causa del conflitto. Circa 800.000 di loro hanno già lasciato il Paese alla volta soprattutto di Ciad, Egitto o Sud Sudan, nel tentativo di mettersi in salvo.

La guerra è esplosa il 15 aprile scorso nella capitale sudanese Khartoum che si è presto trasformata in un campo di battaglia, da cui in tanti, stranieri compresi, sono fuggiti nelle prime settimane degli scontri. Da allora, i combattimenti si sono estesi anche nella regione del Darfur così come in parti degli stati del Kordofan e del Nilo Azzurro, aggiungendo violenze ai già precari equilibri etnici e alla povertà.

Ad oggi, nessuna delle due fazioni ha prevalso ma nemmeno diverse iniziative diplomatiche per fermare la guerra hanno prodotto alcun risultato concreto. Gli sforzi congiunti di Arabia Saudita e Stati Uniti, i primi Paesi ad attivarsi, hanno portato a brevi e spesso violate tregue, tanto che i negoziatori hanno abbandonato a maggio i colloqui. La promessa di riprenderli a luglio non è stata per ora seguita dai fatti. Parallelamente anche l’azione dell’Unione Africana e del blocco regionale dell’Igad, l’Autorità intergovernativa per lo sviluppo, si sono scontrate con la diffidenza e con la poca collaborazione delle due parti in conflitto, disponibili solo a parole a trattare e a mettere al primo posto la sicurezza dei sudanesi.

Inoltre, avere diverse iniziative diplomatiche potrebbe non essere vantaggioso per una soluzione, avvertono gli esperti. “C’è un grave fallimento della diplomazia qui, vediamo troppa concorrenza e poca cooperazione”, ha affermato Alan Boswell, coordinatore del progetto dell’International Crisis Group per il Corno d’Africa. “La diplomazia non c’è stata e questo perché non è abbastanza in cima all’ordine del giorno, specialmente per gli Stati Uniti”, ha detto Boswell, osservando che Washington non ha fatto abbastanza nel suo tradizionale ruolo di coordinamento.

Mentre la diplomazia fatica a fare la sua parte, nonostante frequenti proclami, la situazione umanitaria nel Paese è sull’orlo del collasso secondo testimoni e commentatori. A Khartoum i combattimenti sono quotidiani e la città è in rovina. “Gli uomini della milizia hanno occupato strutture pubbliche, compresi gli ospedali, e saccheggiato quasi tutti i negozi. Anche gli uffici governativi e civili e le imprese nel centro della città, così come le case nei quartieri borghesi, sono stati saccheggiati” ha scritto in un commento per Al Jazeera Abdelwahab El-Affendi, professore di politica al Doha Institute for Graduate Studies.

Ancora una volta però il conflitto è più sanguinoso e complesso in Darfur. Qui le comunità arabe, sostenute dalle Rsf, si starebbero rendendo artefici di operazioni di pulizia etnica nei confronti dei membri della tribù non araba Masalit. Nelle scorse settimana, vicino a el-Geneina, la capitale del Darfur occidentale. Sono stati ritrovati i corpi di 87 persone in una fossa comune. Secondo l’ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani ci sarebbero le Rsf dietro alla strage. Tutte notizie che rievocano i vecchi fantasmi del conflitto dei primi anni 2000 e che hanno portato la Corte penale internazionale (Cpi) ad aprire nuove indagini sui fatti di questi mesi.

A questa iniziativa si sono aggiunte negli ultimi due mesi le sanzioni di Gran Bretagna e Stati Uniti nei confronti delle Rsf di aziende che forniscono loro sostegno. Secondo El-Affendi, nonostante la comunità internazionale e le potenze regionali stiano ancora facendo troppo poco e con troppo poca convinzione per indirizzare il conflitto, un’azione congiunta contro le Rsf potrebbe fornire a quel che rimanere dello Stato e dell’esercito sudanese la legittimità per prevalere. 

Ospedali fuori servizio

Oltre il 67% degli ospedali del Sudan sono fuori servizio e sono in crescita gli attacchi alle strutture mediche, ha avvertito l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) in una nota dopo 100 giorni dagli inizi degli scontri tra esercito e paramilitari. Tra il 15 aprile 2023 e il 24 luglio 2023, l’Oms ha verificato 51 attacchi contro l’assistenza sanitaria, provocando 10 morti e 24 feriti, si legge nella dichiarazione.

“È una tragedia e un oltraggio che nel mezzo di questa crisi sempre più profonda i combattenti continuino ad attaccare le strutture sanitarie e i lavoratori, negando i servizi salvavita a civili innocenti quando sono più vulnerabili”, hanno detto Ahmed al-Mandhari, direttore regionale dell’Oms per il Mediterraneo orientale, e Matshidiso Moeti, direttore regionale dell’Oms per l’Africa. La guerra ha portato con sè anche maggiori denunce di violenze contro donne e ragazze. “Oggi più di 4 milioni di donne e ragazze sono a rischio di violenza sessuale e di genere e devono essere protette a tutti i costi”.

Un altro problema riguarda i focolai di malattie – tra cui malaria, morbillo, dengue e diarrea acquosa acuta – che stanno aumentando a causa dell’interruzione dei servizi sanitari pubblici di base. Con l’inizio della stagione delle piogge in Sudan, è probabile che le epidemie reclamino più vite a meno che non vengano intraprese azioni urgenti per ripristinarne la diffusione, ha affermato l’Oms

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