L’apartheid a scuola

di claudia

di Uoldelul Chelati Dirar

Già da prima del fascismo l’amministrazione coloniale italiana discriminava drasticamente il curriculum scolare tra i figli di coloni e i giovani eritrei. Se comunque un certo numero di questi riuscì a passare tra le maglie della politica dell’istruzione, e molti poterono così rivelare il loro talento, lo si deve all’intervento dei religiosi e alla vicina Etiopia.

«Punto primo: scuole miste di bianchi e di neri no, no e poi no! L’indigeno fanciullo, troppo più agile e pronta ha l’intelligenza del fanciullo bianco; evitare dunque raffronti. Scuole di bianchi? Ma deve pensarci il governo e ci pensa. Scuole di neri? Giova lo istituirle? Non possiamo servirci di indigeni alla posta, per esempio o al telegrafo. E sarà fausto giorno quello in cui potremo non valercene neppure come interpreti. E allora? A ciangottare un po’ d’italiano imparano da sé».

Così si esprimeva nel suo Diario eritreo Ferdinando Martini, primo governatore civile della Colonia Eritrea, esponente di spicco del liberalismo italiano tardo-ottocentesco e anche ministro della Pubblica istruzione nel primo governo Giolitti. In queste parole è condensato l’atteggiamento dell’amministrazione coloniale italiana in Eritrea in materia di istruzione per le popolazioni colonizzate, ovvero un atteggiamento di sostanziale chiusura. Nata con l’intento di fornire uno sbocco alla manodopera in esubero del neonato Stato unitario, l’espansione coloniale italiana era caratterizzata da una forte presenza di forza lavoro proveniente dall’Italia, a volte in competizione con la forza lavoro locale.

Questa peculiarità di colonialismo detto demografico costituì un costante elemento di tensione per gli amministratori coloniali, preoccupati di affermare e mantenere una distanza fisica e sociale tra colonizzatori e colonizzati. Questo spiega la forte enfasi sulla trasformazione degli spazi urbani che dovevano ospitare i coloni riproducendo, in terra d’Africa, ambienti, ritmi e sapori della madrepatria. Un aspetto, questo, che viene travisato tuttora da settori della politica italiana che sostengono la natura bonaria del colonialismo italiano: esso, affermano, si sarebbe principalmente dedicato alla costruzione di strade, ponti e scuole. In realtà, per le popolazioni colonizzate questa politica si tradusse in un regime di segregazione diffusa. Infatti erano segregati gli spazi urbani, divisi tra zone riservate alla popolazione europea e zone riservate alla popolazione africana, così come il mondo del lavoro, caratterizzato da un costante tentativo di impedire l’impiego di forza lavoro italiana non qualificata. La logica segregazionista si estese anche al settore dell’istruzione, dove, già a partire dai primi anni, l’amministrazione italiana cercò di limitare l’accesso all’istruzione dei cosiddetti sudditi coloniali alla quarta elementare.

Successivamente, con il fascismo, si affermò l’idea che l’istruzione dei colonizzati potesse estendersi fino alle medie ma sempre secondo uno schema rigidamente segregato, con scuole per europei e scuole per africani. e organizzato con differenti curricula. Costante lungo tutta la politica scolastica coloniale fu il deliberato rifiuto di ostacolare la formazione di un’élite locale.

La più diretta conseguenza di questa politica fu la formazione di un sistema al cui interno la mobilità sociale per le popolazioni locali era fortemente limitata, in quanto i giovani formati nelle scuole coloniali e presunti fruitori della modernità coloniale si trovavano con uno spettro limitato di opportunità. Quanti accettavano i limiti formativi imposti dal sistema potevano accedere ai ruoli inferiori del mansionario coloniale con la qualifica di interpreti, traduttori, ecc. Le alternative lasciate a quanti fossero intenzionati a perseguire studi superiori era l’emigrazione, in particolare tramite i circuiti religiosi, che offrivano l’accesso a seminari e università pontificie per i cattolici, scuole teologiche per i protestanti e centri di eccellenza del vicino mondo arabo per i musulmani. In tal modo, nonostante le restrizioni poste dall’amministrazione coloniale, diverse generazioni di cosiddetti “sudditi coloniali” riuscirono a costruirsi percorsi formativi alternativi e a produrre intellettuali raffinati e pienamente inseriti nel dibattito culturale e politico del tempo.

In ogni caso, per quanti riuscivano a superare i limiti coloniali all’istruzione, rimaneva estremamente limitata la possibilità di mettere a frutto in colonia le competenze acquisite, in virtù di un mercato del lavoro in gran parte compartimentato su base razziale. Pertanto l’esodo rimaneva l’unica opportunità realistica lasciata ai giovani istruiti. In questa prospettiva il più ovvio e ospitale sbocco era l’Etiopia, che sotto la guida dell’imperatore Haile Selassie perseguiva un ambizioso processo di modernizzazione e quindi era in costante caccia di talenti. Per molti di questa generazione l’Etiopia, unico Stato africano a essere sfuggito al dominio coloniale, si trasformò in un laboratorio vivace e dinamico dove immaginare un futuro non più all’insegna della subalternità al dominio coloniale.

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