La storia come uno specchio

di claudia

di Uoldelul Chelati Dirar

L’insegnamento della storia è rimasto del tutto inadeguato, di impronta ancora cripto-coloniale, nonostante il dibattito sulla World History nato una quarantina d’anni fa. Il problema non è accademico: riguarda in particolare i giovani nuovi italiani, già penalizzati dalla questione cittadinanza.

«Nos ancêtres les Gaulois» (I Galli, nostri antenati): è l’incipit che caratterizzava i testi di storia utilizzati nelle scuole francesi a partire dalla Terza Repubblica ed era il riflesso di un complesso processo di costruzione dell’identità nazionale francese. Gli stessi testi, tuttavia, e quindi lo stesso incipit, venivano utilizzati anche nelle scuole delle colonie francesi. Questo denotava da un lato la coerenza del modello coloniale francese, caratterizzato da una forte filosofia assimilazionista che presupponeva la completa omologazione culturale delle colonie alla madrepatria francese. Dall’altro, indicava la presunzione dell’assoluta superiorità della cultura e società francesi e il totale disprezzo per il patrimonio culturale delle colonie, frettolosamente liquidato come un insieme disarticolato di superstizioni e di pratiche primitive, destinate a essere soppiantante dalla modernità occidentale.

Senza le stesse ambizioni assimilazioniste ma ugualmente roboanti nello stile, anche i testi di storia utilizzati nelle colonie italiane utilizzavano una retorica simile. «L’Italia è la più bella terra dell’Europa e la più illustre nella storia della civiltà», così recitava un passo del Manuale di letture scelte ad uso delle scuole indigene pubblicato nel 1916 per le scuole della missione cattolica in Eritrea. La negazione della dignità e del valore dei sistemi culturali all’interno dei quali vivevano e crescevano gli studenti delle scuole coloniali non può non suscitare sdegno e irritazione. Va comunque collocata in un contesto storico, quello coloniale, il cui principio ispiratore era la ferrea convinzione dell’assoluta superiorità della civiltà occidentale su tutte le altre civiltà mondiali. Il fondamento ideologico di qualsiasi processo di espansione coloniale europea tra Otto e Novecento era la convinzione che il colonialismo fosse un immane sforzo collettivo dell’Occidente per civilizzare e modernizzare popolazioni ritenute prive di civiltà e arretrate, in altre parole il famoso «fardello dell’uomo bianco» della poesia di Kipling.

Quello che invece dovrebbe causare maggiore irritazione e anche preoccupazione è il permanere di un approccio simile nella didattica della storia per le scuole medie e superiori nell’Italia contemporanea. I testi utilizzati nelle scuole italiane dei nostri giorni, infatti, senza ricorrere alla roboante retorica del periodo coloniale ne mantengono di fatto l’approccio pedagogico. Tranne pochissime eccezioni, la didattica della storia in Italia sembra restare impermeabile al grande dibattito internazionale che ha animato il mondo accademico e della scuola circa la necessità di definire un insegnamento della storia capace di riflettere l’enorme ricchezza del patrimonio storico e culturale dell’umanità, senza più i filtri di un pensiero razzista. A partire dagli anni Ottanta questo dibattito si è tradotto in un nuovo approccio, la World History, che propone di ridefinire il perimetro e il canone della storiografia, criticando la tendenza a utilizzare gli stati-nazione contemporanei per definire gli ambiti dello studio del passato, e anche di mettere in discussione una tradizione che pone l’Europa al centro di qualsiasi sviluppo storico e, conseguentemente, la eleva a metro di paragone universale.

Il ritardo della scuola italiana nel recepire questo dibattito preoccupa non per un vezzo accademico quanto per le gravi implicazioni che rischia di avere su intere generazioni di italiani. Così come la frase sugli “antenati galli” nei manuali francesi era un potenziale generatore di alienazione culturale tra i giovani scolari delle colonie, analogamente per le centinaia di migliaia di studenti italiani con famiglie di provenienza africana o asiatica, la continua riproposizione della ricchezza e complessità del patrimonio storico dell’Europa a fronte di un pressoché totale silenzio sul resto del mondo, incluso quello da cui provengono i loro genitori, contribuisce a creare un senso di alienazione e marginalità rispetto a un mondo in cui non viene offerta loro la possibilità di rispecchiarsi.

Se la crudele brutalità della normativa attuale che nega la cittadinanza alimenta un doloroso senso di estraneazione e frustrazione in persone che sono a tutti gli effetti italiane, non meno grave è l’impatto dell’attuale didattica della storia. Lo studio della storia non è il semplice apprendimento di date e nozioni generali sul passato ma anche un fenomenale specchio nel quale gli studenti possono trovare riflessa una parte di sé e così definire in modo articolato la propria identità. In assenza di una didattica della storia inclusiva, una parte della gioventù italiana rischia di crescere segnata da sensi di esclusione e di estraneità che si possono tradurre in alienazione culturale e anche legittimo risentimento, il cui costo sociale nessuna società può permettersi.

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