intervista a cura di Fabrizio Floris
L’eredità dei conflitti coloniali è al centro della riflessione dello scrittore El Hadj Souleymane Gassama (nella foto di apertura), che si firma Elgas, autore de I buoni risentimenti: saggio sul disagio postcoloniale (premio Goncourt 2021). Ne abbiamo parlato a margine della recente Biennale Democrazia Torino.
C’è ancora qualcosa che è importante ancora sottolineare sulla colonizzazione?
«Qualunque colonizzazione ha fallito perché nessuna è mai riuscita a convertire il cuore. Quando non si riesce a convincere, a sollecitare l’adesione, come strumento rimane solo la violenza, che però permette di dominare solo per un tempo breve, in virtù della forza o della superiorità tecnica, perché crea una fabbrica di collera e desiderio di ribellarsi […]. c’era il diritto a colonizzare i popoli inferiori, non si è trattato solo di un’avventura politica, ma c’era dietro una produzione scientifica e letteraria. La colonizzazione si reggeva sulla ricerca etnografica».
Si può sostenere che la colonizzazione segue la visione del mondo?
«Si è qualcosa che rimane anche quando finisce perché dopo resta la colonialità (l’insieme delle dominazioni e dei sistemi). Quello che ha spiegato Hannah Arendt sul totalitarismo non è che la naturale conseguenza della logica coloniale. Infatti, quello che noi non perdoniamo a Hitler è il crimine verso l’uomo bianco perché vi sono stati crimini commessi dalla Francia, ad esempio in Algeria, equivalenti per brutalità», ma culturalmente derubricati. La conseguenza per le persone però rimane.
Qui c’è l’origine di quello che lei chiama risentimento?
«Il disagio identitario non è altro che avere un Paese della ragione e un Paese del cuore. Nel primo è più facile vivere, realizzare progetti, ma il Paese del cuore è il paese di origine. Come convivere in un Paese che ha schiacciato la nostra indipendenza e identità (il Paese della ragione)?. Per questo si crea una scissione interiore. La conseguenza è che molti cittadini originari delle ex colonie, come gli algerini, vivono in Francia, ma non si sentono francesi».

Dov’è che vede oggi tracce della colonia?
«La colonialità rimane nelle guerre al terrorismo vedi le varie operazioni francesi nel Sahel (barkhane, serval…), ma anche nella guerra in Iraq da parte dell’amministrazione Bush. Non si tratta, tuttavia, solo di violenza armata, ma le guerre sono anche semantiche nel loro atto di nascita attraverso la deumanizzazione dell’altro. E se un dibattito non è mitigato dalle parole, la violenza verbale anticipa quella fisica. È importante perseguire favore di una forma di giustizia storica, dire ai colonizzatori quali siano state le loro colpe, ma senza risentimento: non vivere nell’ossessione del regolamento dei conti o della vendetta. Parimenti non si possono scaricare tutte le responsabilità sulla Francia, ma ricordare anche quelle dei governi africani».
Ci sono ancora tracce della Negritudine?
Gli scrittori africani che scrivono in francese (o altre lingue coloniali), sono pubblicati in Francia e che ricevono una forma di riconoscimento dalle autorità francesi, sono considerati alienati e di fatto traditori della propria comunità. È la cosiddetta Sindrome di Senghor, secondo la quale al riconoscimento in Francia non può che accompagnarsi un’inevitabile de-africanizzazione, un’alienazione che fa cessare immediatamente la validità e la legittimità del riconoscimento artistico da parte dei veri africani. Si parla ritorno in Africa, valori africani, identità africana ma, l’identità non esiste. La Negritude è l’inizio di una guerra fratricida verso una purezza che fa solo impazzire perché l’identità è qualcosa di vivo in movimento. La colonia è un fatto storico e come scrive il poeta congolese Tchicaya U Tam’Si Io rinuncio a questa morte, me ne vado […], addio al mio dolore! […] non avveleno più la mia vita, la ricostruisco attorno a un raggio, quello che va dal cuore all’esterno dove la notte non è più plantigrada dove la notte è solo, notte.