La Nigeria è a pezzi ma non si “romperà”. Un’analisi

di Valentina Milani

La volontà di 17 governatori della Nigeria meridionale di vietare il pascolo aperto del bestiame nei loro stati, per disinnescare – almeno in parte – gli scontri tra pastori fulani e agricoltori, ha sollevato un ampio dibattito e la preoccupazione che le spinte separatiste possano portare a un’implosione della Nigeria. Anche perché i movimenti separatisti, in particolare quelli Yoruba e Igbo, stanno tornando a farsi sentire. Le cronache dell’ultimo periodo hanno riportato una serie di attacchi alle stazioni di polizia e alle prigioni, negli Stati del sud a prevalenza Igbo, che sono stati attribuiti all’Ipob, la storica formazione separatista del Biafra (che tuttavia ha negato un proprio coinvolgimento), mentre nella zona Yoruba, che confina con il Benin, c’è una grande mobilitazione – al momento pacifica – scandita da lettere con richieste e ultimatum inviate al governo centrale, che puntualmente le ignora. Ma esiste davvero il rischio che pezzi di Nigeria vadano per conto loro? Africa Rivista / InfoAfrica ne ha parlato con Alessio Iocchi, analista politico e senior sesearch fellow al Norwegian Institute of International Affairs (Nupi) di Oslo, Norvegia.

C’è il rischio a suo avviso che la Nigeria possa “rompersi”? E perché i separatismi igbo e yoruba sembrano essersi risvegliati proprio adesso? «A mio avviso non esiste la possibilità che la Nigeria si sfaldi: malgrado le apparenze e le notizie che circolano, lo Stato è forte e le organizzazioni e i gruppi di supporto alle istituzioni sono meglio organizzati di qualsivoglia gruppo separatista. In realtà, i due separatismi sono la riproposizione di istanze che non si sono storicamente mai sopite. Perché risorgono nel 2021? Il tema sul quale poggiano le due rivendicazioni è il solito: l’insicurezza. Lo Stato centrale, gestito ormai da due mandati da un musulmano del nord (Muhammadu Buhari), viene accusato di essere inefficiente ed incapace di salvaguardare la sicurezza delle comunità del sud (yoruba ed igbo) o, peggio, di essere indifferente verso le minacce a queste due comunità. Da qui, la strumentalizzazione dello stato di insicurezza per organizzare gruppi più che altro caratterizzabili come vigilantes e frutto della tradizionale forza centrifuga della politica nigeriana (e del suo assetto federale). Non è un caso che i separatismi del sud emergano in contesti di forte contestazione del potere politico nigeriano che si trasforma poi in contestazione delle istituzioni e dunque della federazione intera. Il tempismo è altresì legato al fatto che l’élite del nord è ormai al potere da due mandati, generando una percezione di esclusione su base etno-linguistica».

Separatismo yoruba e igbo potrebbero allearsi? «Credo sia impossibile una saldatura fra i due separatismi poiché esistono troppe fault-lines che li dividono. Inoltre questi i movimenti separatisti nascono chiedendo cento perché sanno che, al massimo delle loro possibilità, durante le negoziazioni potranno ottenere 10. Quel poco che c’è da spartirsi, piuttosto che alleanze, genera invece ulteriori scissioni».

Regno Unito, Stati Uniti, Francia: come guardano a queste spinte centrifughe? E L’Unione Africana e l’Ecowas? «Le ex potenze coloniali guardano a tutto questo con assoluta indifferenza, si veda a questo proposito il caso dell’Ambazonia in Camerun. Da quasi due decadi vige la policy per cui i “problemi africani richiedono soluzioni africane”, che è un modo come un altro per dire che saranno gli stati o, al peggio, i contingenti multi-nazionali ad occuparsi di risolvere (militarmente) la questione. Sia Ua che Ecowas non entreranno assolutamente nel merito della questione, e se lo faranno sarà solamente perché questa sta andando incontro ad una escalation fuori controllo – cosa che trovo assolutamente impossibile nel breve e medio termine. Tutti i movimenti separatisti, tuttavia, sono legati a doppio-filo ai movimenti della diaspora (i facoltosi yoruba ed igbo d’America), i quali alimentano finanziaramente e narrativamente le loro istanze».

C’è un nesso tra le varie emergenze che sta affrontando la Nigeria in questo momento? «Le forze centrifughe che vive la Nigeria oggi sono la risultante di deformità strutturali del sistema nigeriano, intrappolato tra devoluzione di competenze su vari settori (inclusa la sicurezza) e responso iper-militarizzato a minacce e contestazioni politiche che richiedono tavole rotonde, studi e investimenti economici. Ciascuno dei vari fenomeni citati andrebbe risolto con uno sforzo politico enorme, che evidentemente il governo (questo come i precedenti) non ha la volontà di attuare: il separatismo yoruba ha a che fare con il divario fra classe politica, élite economica e la politicizzazione delle masse nei territori del sud-ovest, e dunque quasi come una questione intra-yoruba; il separatismo igbo è alimentato dalla memoria storica (irrisolta) del Biafra e dalla mancanza di redistribuzione delle risorse locali; il terrorismo di matrice islamista si alimenta dello stesso divario fra élite politico-economiche musulmani e vasta maggioranza della popolazione che vive in condizioni di semi-indigenza».

Come viene percepito in questo quadro complesso il “forte” stato nigeriano? «In tutti questi casi, lo stato nigeriano si presenta solamente come apparato repressivo (militare o di polizia) laddove l’insicurezza andrebbe combattuta con un massiccio investimento in termine di sicurezza sociale: redistribuzione virtuosa delle risorse, investimento su istruzione, sanità e trasparenza amministrativa. La questione dell’insicurezza nel centro-nord nei territori agricoli/pastorali è invece il frutto di un processo meramente economico di disinvestimento da parte del governo centrale verso una riforma in senso inclusivo delle risorse agro-pastorali. Questo ha portato ad una saldatura fra economia informale (di per sé segmentata, iper-competitiva e dunque altamente insicura) e cartelli criminali, che sta degenerando in un vasto sistema quasi-mafioso di gestione delle risorse agro-pastorali. Per quest’ultimo caso, la soluzione non è solo una riforma del patrimonio agro-pastorale del paese ma anche un censimento del patrimonio zootecnico e un massiccio investimento verso una gestione integrata e virtuosa che possa far uscire il settore primario dall’economia in nero. Questo tuttavia si scontra con il sistema devolutivo del federalismo nigeriano e la scarsità di efficienza degli stati in questione».

(Stefania Ragusa)

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