Amnesty compie sessant’anni, non mancano le sfide in Africa

di Valentina Milani

La pandemia da covid-19 ha brutalmente esposto e approfondito le disuguaglianze in tutto il mondo. “A subire i contraccolpi dell’ondata globale di coronavirus, nel continente africano, sono state le fasce più vulnerabili della popolazione, alcune della quali alle prese con problematiche già radicate come i cambiamenti climatici e i conflitti armati nuovi o di vecchia data”, a porre l’attenzione sugli eventi che hanno minato le condizioni di vita e dei diritti civili in Africa è Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, organizzazione non governativa internazionale impegnata nella difesa dei diritti umani che proprio oggi celebra i sessant’anni dall’inizio delle proprie attività.

Intervistato da Africa Rivista, Noury ha ricordato alcuni dei fatti più gravi che nell’ultimo anno e mezzo in Africa hanno pesato sulla popolazione civile: “negli ultimi tempi si è aggravato ulteriormente il conflitto in Mozambico, nella provincia settentrionale di Cabo Delgado, causando sfollamenti continui. E’ inoltre scoppiato il conflitto nella regione etiope del Tigray che ha avuto una serie di effetti a cascata come un gran numero di sfollati in Sudan, la distruzione di insediamenti civili e la mancanza di giustizia e di difesa dei diritti della popolazione.” In Paesi come l’Egitto, inoltre, è stata rivelata una situazione sempre più catastrofica.

Agli effetti devastanti dei conflitti e della pandemia si sono aggiunti quelli dei cambiamenti climatici fattori convergenti che hanno avuto gravi conseguenze per le popolazioni e che hanno rivelato ostacoli profondamente radicati che minano il funzionamento dei sistemi di protezione dei diritti umani. “Nel 2020 si è verificata la peggiore siccità degli ultimi 40 anni nel sud del Madagascar che mette tutt’ora a rischio la vita di oltre un milione di persone. E questo è stato l’effetto più grave in assoluto dei cambiamenti climatici in africa”, spiega il portavoce di Amnesty.

Casi come la Somalia, invece, mostrano come la violazione dei diritti umani sia profondamente radicata i determinati sistemi: “ci si potrebbe chiedere perché occuparsi dei giornalisti di fronte a uno stato agonizzante nel quale il governo legittimo controlla solo poche parti di un Paese dilaniato anche da carestie e siccità, oltre che dagli attacchi dei militanti di al-Shabaab. Ma difendere i diritti dei giornalisti è fondamentale perché sono i professionisti dell’informazione che parlano di conflitti che altrimenti sarebbero ulteriormente oscurati, con pesanti ripercussioni sulla società civile. In Somalia il giornalismo che prova a raccontare la realtà sul campo è largamente osteggiato”, spiega Noury.

In termini di libertà d’espressione in Somalia, il rapporto 2020/’21 di Amnesty denuncia infatti l’uccisione di due giornalisti nel 2020, sottolineando che molti altri sono stati minacciati, molestati, intimiditi, picchiati o arbitrariamente arrestati e consegnati alla giustizia da funzionari statali, tra cui la polizia e l’esercito, in tutta la Somalia centro-meridionale e nel Puntland. Secondo l’organizzazione di difesa dei diritti umani, inoltre, le autorità hanno limitato l’accesso alle informazioni, talvolta vietando ai giornalisti di entrare negli edifici ufficiali, partecipare alle manifestazioni o visitare la scena di atti violenti, come gli attacchi di al Shabaab. Ad alcuni giornalisti è stato anche rifiutato il permesso di intervistare alti funzionari del governo. Inoltre, le accuse di attacchi ai membri della professione non sarebbero state indagate seriamente.

La Somalia, inoltre -come ricorda Noury – “vive ancora un problema scarsamente affrontato: l’impatto sulla popolazione degli attacchi con i droni degli Stati Uniti contro al Shabaab”. Una campagna, questa, che Amnesty porta avanti da molto tempo e che, sottolinea il portavoce, “ha prodotto alcune prime crepe nell’impunità e nella negazione da parte degli Usa che ci fossero vittime tra i civili”.

Nell’ultimo anno, in Africa, è stato rilevato anche un peggioramento della condizione femminile. A pagare uno dei prezzi più alti della pandemia nel continente, come in altre parti del mondo, sono state le donne che “hanno vissuto un doppio lockdown: quello imposto dalle autorità sanitarie e quello determinato dal convivere forzatamente con mariti e famigliari violenti”, dice Noury citando il caso Sudafrica dove si è registrata una vera e propria impennata di violenza sulle donne alla quale “non è corrisposta un’azione delle autorità”.

I termini di diritti delle persone Lgbtq+ Noury segnala una situazione che rimane preoccupante se non addirittura recrudescente. “Abbiamo appena denunciato una caccia alle transessuali in Benin e gli esempi di intolleranza nell’Africa subsahariana sono purtroppo frequenti”, afferma Noury secondo il quale la comunità omosessuale e non solo continua ad essere priva di diritti nel continente africano.

Miglioramenti o segnali positivi? Passi avanti sono stati compiuti in riferimento alla pena di morte: “l’Africa sta facendo grandi passi avanti”, dice il portavoce di Amnesty ricordando l’abolizione della pena capitale in Ciad e la decisione del Malawi di renderla incostituzionale.

In termini di azioni urgenti da compiere, Riccardo Noury sottolinea l’importanza della mobilitazione dell’opinione per portare avanti campagne di difesa dei diritti ricordando “i grandi passi in avanti compiuti, per esempio, nel 2020 in Nigeria dall’enorme movimento per lo smantellamento della SARS, reparto speciale della polizia accusata di brutalità e violenze. “Amnesty ha visto minacciata la propria presenza in Nigeria proprio perché abbiamo preso parte e solidarizzato con il movimento ‘EndSars”. O, ancora, ai cambiamenti ottenuti in Algeria grazie alla mobilitazione del movimento Hirak. “Così come era stata la mobilitazione nel 2019 della società civile a far cadere una dittatura trentennale in Sudan”. E’ importante che si scenda in piazza, conclude Noury.

Secondo il portavoce, contemporaneamente, dal punto di vista dell’azione delle istituzioni occorre rafforzare gli strumenti regionali dell’Unione Africana e, soprattutto, gli strumenti di giustizia.

Amnesty, in occasione del suo sessantesimo “compleanno”, ricorda infine il proprio impegno per “un vaccino di tutti e per tutti“. “L’Africa è vittima di un vero e proprio nazionalismo vaccinale che fa sì che gli Stati ricchi del nord abbiano accaparrato scorte per vaccinare in eccesso la propria popolazione mentre ci sono un centinaio Paesi, molto dei quali africani, ai quali non è arrivata una sola dose. A beneficio dell’Africa stiamo chiedendo una deroga dei brevetti“, ricorda Noury.

Sono passati sessant’anni dall’inizio delle attività di Amnesty. Era infatti il 28 maggio 1961 quando l’avvocato inglese Peter Benenson diede avvio alla prima campagna di Amnesty International chiamata “Appello per l’amnistia” con lo scopo di liberare i cosiddetti “prigionieri di coscienza”, persone incarcerate solo per aver espresso le proprie opinioni o aver esercitato il proprio credo religioso. Oggi, come visto, Amnesty International continua a battersi per la difesa dei diritti umani nel mondo, stilando rapporti informativi e chiedendo la scarcerazione di persone imprigionate ingiustamente.

(Valentina Giulia Milani)

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