Venezia: Interesting Africa

di AFRICA
Njideka Akunyili Crosby 2017 MacArthur Fellow, photographed in her studio in Los Angeles, CA on Wednesday September 13th, 2017.

May you live in interesting times. Possiate vivere in tempi interessanti. Questo titolo ha scelto Ralph Rugos per la sua Biennale, la 58ª, che apre i battenti l’11 maggio: l’appuntamento più importante, su scala mondiale, nell’ambito dell’arte contemporanea. Interesting, nelle intenzioni di Rugos, sono i tempi carichi di sfide e di minacce: le prime vanno raccolte, le seconde disinnescate. L’Africa è presente, a Venezia, con un parterre di nomi limitato ma – l’aggettivo non è casuale – straordinariamente interessante.

Procediamo in ordine alfabetico, cominciando dalla nigeriana Njideka Akunyli Crosby, che contestualmente sarà presente in laguna con una personale, The Beautyful Ones, allestita negli spazi della Galleria Victoria Miro (sestiere di San Marco), dall’8 maggio al 12 luglio. Di lei abbiamo scritto in questa rubrica tre anni fa, sottolineando l’originalità meticcia della sua tecnica di collage e lo sguardo acuto con cui rappresentava la diaspora africana high and middle class nel contesto americano. E negli Usa, sua patria d’elezione, Akunyli era allora spesso citata come “artista africana da tenere d’occhio”. La previsione si è avverata e lei oggi è la più quotata in assoluto.

Njideka Akunyli Crosby

Anche Michael Armitage, kenyota con un piede a Londra, partecipa alla Biennale mentre una sua mostra è in corso in Italia. La Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino ospita, fino al 26 maggio, The Promise Land. Armitage, chiamato per il suo senso del colore e la sensualità delle sue figure “il Gauguin d’Africa”, è un creativo scomodo e impegnato. L’elemento erotico nella sua pittura rientra in un complesso discorso di denuncia che tocca temi come il turismo sessuale, l’omofobia, ma anche l’esercizio violento del potere.

Julie Mehretu, nata ad Addis Abeba e cresciuta in Michigan, occupa da anni i primi posti nella top ten degli artisti africani più quotati. Conosciuta per le grandi pitture astratte che tracciano una sorta di psicogeografia dell’anima, Mehretu è anche raffinata disegnatrice. Le sue opere sono espressione di una dialettica viva tra ciò che può essere detto con un tratto di matita e una teoria di bianco e nero, e la narrazione, successiva e stratificata, del colore. Per il cubo di Punta della Dogana, a Venezia, ha realizzato nel 2011 due tele che sono state esposte in occasione della collettiva Elogio del dubbio.

Più conosciuta dalle nostre parti è la sudafricana Zanele Muholi, fotografa e attivista del movimento Lgbt (sue le foto in bianco e nero). Grazie a lei, anche i nostri giornali hanno scoperto, qualche anno fa, l’odiosa pratica dello stupro correttivo perpetrato ai danni delle lesbiche in Sudafrica. Ha esposto fino allo scorso 5 aprile, alla Galleria del Cembalo di Roma, la sua personale Nobody Can Love You More Than You.

Zanele Muholi2

Non ha mai esposto in Italia, invece, la nigeriana Otobong Nkanga, ma ci sentiamo di prevedere che di lei si parlerà molto e in tempi brevi. L’anno scorso, con la sua prima personale americana To Dig a Hole That Collapses Again, ossia “scavare una buca che continua a crollare”, ha portato sotto i riflettori il tema dello sfruttamento delle risorse del Sud del mondo, rompendo in particolare il silenzio attorno al business della mica, un silicato “scintillante” usato nell’industria cosmetica e in quella delle vernici, dell’elettronica, delle automobili, a costi umani elevatissimi. In un’epoca in cui il giornalismo abdica sempre più spesso alla sua funzione di ricerca e di denuncia, capita che siano gli artisti, attingendo alla propria memoria, a portare alla luce storie di grande iniquità. Nkanga ha scelto questa strada.

Chiude il nostro elenco il sudafricano Kemang Wa Lehulere, vincitore nel 2017 del premio Deutsche Bank’s Artist of the Year. Grazie a questo riconoscimento, ha potuto portare in Italia, nel 2017, il suo progetto Bird Song, allestito al Maxxi di Roma. È un lavoro incentrato sul dialogo tra le sue opere e quelle di Gladys Mgudlandlu (1917-79), una delle prime artiste nere a esporre, negli anni Sessanta, in una galleria sudafricana. I suoi soggetti preferiti erano paesaggi e uccelli, che le valsero l’appellativo di “Bird Lady”.

Passiamo quindi ai padiglioni nazionali. Qui vanno segnalate diverse prime volte: quelle dell’Algeria, del Madagascar e del Ghana. Quest’ultimo propone un lavoro collettivo sulla libertà, intitolato appunto Freedom, e riunisce personalità del calibro di El Anatsui, Ibrahim Mahama, John Akomfrah. Il Madagascar punta invece su un sol uomo, lo scultore ceramista Joël Andrianomearisoa.

Partecipano, ma non per la prima volta, anche Costa d’Avorio, Egitto, Mozambico, Seychelles, Sudafrica e Zimbabwe. Rispetto a due Biennali fa, quando il curatore era Okwui Enwezor – prematuramente scomparso a metà marzo –, c’è quantitativamente meno Africa. Ma la presenza del continente e la variegata espressione delle sue proposte artistiche è un dato ormai che, negli interesting times che stiamo attraversando, non può essere più messo in discussione.

(Stefania Ragusa)

Zanele Muholi

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