Ruanda, 25 anni fa il genocidio

di Enrico Casale
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Il 6 aprile 1994 prendeva il via il genocidio in Ruanda. Questa settimana, nel piccolo Paese dei Grandi Laghi, prendono il via le cerimonie di commemorazione di una strage che si pensava non fosse più possibile né in Africa né altrove. Un pogrom devastante che ricordava per la violenza e gli obiettivi quelli perpetrati da Adolf Hitler in Germania o da Pol Pot in Cambogia.

Tutto inizia con il lancio di un missile che abbatte l’aereo dell’allora presidente Juvenal Habyarimana che viaggia insieme a Cyprien Ntaryamira, del Burundi, entrambi hutu. Nessuno è mai riuscito a provare che quel missile sia stato lanciato dagli oppositori dell’etnia minoritaria tutsi. Ma quello è il momento in cui scatta il click che dà vita a violenze inaudite. Da Radio Télévision Libre des Mille Collines, stazione nota per fare propaganda contro i Tutsi, partono gli inviti alla vendetta: «È arrivato il momento!», «Tagliate gli alberi alti. Schiacciate quegli scarafaggi. Schiacciateli tutti, quegli inyezi!», «Sono stati quegli scarafaggi!». È l’inizio della carneficina, quella che Kofi Annan ha definito «un’onta per l’umanità».

Migliaia di Tutsi e di Hutu moderati cadono sotto i colpi dei fanatici hutu. Non esistono zone franche. Gli «scarafaggi» sono uccisi nelle chiese, nelle scuole, nei luoghi di ritrovo. Di fronte alla mattanza, nessuno o quasi interviene. Le Nazioni Unite, fatta eccezione per alcuni suoi esponenti come il generale Roméo Dallaire, sono «colpevolmente incapaci» di fermare le violenze. Gli Usa, da poco scottati dal fallimento in Somalia, non intervengono, anzi pongono il veto sull’uso del termine “genocidio”, bloccando così i rinforzi al contingente di caschi blu. Il Belgio, ex potenza coloniale, entra nel Paese solo per evacuare i propri cittadini. La Francia non solo non vuole fermare il genocidio, ma ne diventa in qualche modo complice. Non solo ha sostenuto apertamente Habyarimana con l’invio di armi e addestrando le Forces Armées Rwandaises, complici del genocidio, ma mette in atto l’Operazione Turquoise.

Con la facciata di voler creare una «zona sicura» al confine con lo Zaire (ora Repubblica democratica del Congo) per le migliaia di rifugiati che lasciavano il Paese, in realtà riarmano le forze genocidiarie, che possono così continuare i massacri a danno dei Tutsi. In quella safe-zone, la Radio Télévision Libre des Mille Collines trova la sua nuova casa, trasmettendo ondate propagandistiche di odio. In quella safe-zone l’allora presidente francese Mitterrand sostiene di aver salvato migliaia di vite umane, in realtà non fa nulla per bloccare il genocidio.

La mattanza termina a metà di luglio. Per circa 100 giorni, vengono massacrate sistematicamente almeno 500.000 persone. Le stime delle vittime sono tuttavia cresciute fino a raggiungere cifre dell’ordine di circa 800.000 o 1.000.000 di persone.

Al potere sale Paul Kagame, leader dei Tutsi. Oggi governa ancora lui. In Ruanda, Paese in forte sviluppo, non si parla più di divisioni etniche e di tensioni. Le autorità hanno messo la sordina alle tesi storiche che vadano contro la versione ufficiale e che permettano una più completa ricostruzione dei fatti. In questa settimana saranno molte le rievocazioni ufficiali. Ma l’odio etnico è sparito? Sarà solo il tempo a dirlo.

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