Non sempre l’Africa subisce la storia

di claudia

di Marco Trovato – Direttore editoriale Rivista Africa

Ogniqualvolta in Africa divampa una crisi politica e umanitaria, nel mondo giornalistico si rinnova la necessità di trovare chiavi interpretative e narrative che aiutino a capire i motivi di conflitti, colpi di stato, rivolte di piazza. L’urgenza di raccontare i fatti può spingere a semplificare se non banalizzare vicende complicate in storie e regioni del mondo di cui poco o nulla si sa. Spesso si rispolverano i cliché delle lotte tribali o delle guerre di religione. E si torna ad evocare gli interessi delle potenze straniere che sarebbero all’origine delle violenze (un refrain – quello delle responsabilità esterne – che ha l’effetto di deresponsabilizzare gli africani stessi, come dimostrano certi governanti delle ex colonie francesi che riconducono le colpe dei loro fallimenti, sempre e comunque, alle ingerenze di Parigi).

L’ultima volta è capitato con il Sudan. All’indomani dello scoppio dei combattimenti tra esercito regolare e forze paramilitari a Khartoum, i media si sono affrettati a dare ampio risalto alla presenza dei soldati russi della Wagner, insinuando che dietro le violenze ci fosse lo zampino di Mosca. È innegabile che la Russia abbia interessi in Sudan e che la sua influenza militare sia cresciuta negli ultimi anni. Ma ciò non fa di Putin il regista di questa guerra. Del resto, sono innumerevoli i Paesi con interessi economici e strategici in Sudan, cerniera tra Africa nera e mondo arabo, corridoio naturale per ogni genere di traffico nella direttrice nord-sud (oro, petrolio… e migranti che l’Unione Europea vorrebbe bloccare alle sue frontiere).

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Combattimenti a Khartoum. Foto:AFP

In Sudan sono attivissimi (con imprese e apparati di intelligence) anche Emirati Arabi Uniti, Cina, India, Egitto, Turchia, Arabia Saudita. Persino gli Usa, che pure avevano inserito il Paese nella lista nera degli Stati canaglia, sottoponendolo a un pesante embargo sotto il regime di Omar al-Bashir, non hanno mai rinunciato a fare affari con Khartoum. Pecunia non olet: il denaro non puzza. Neanche la gomma arabica. Il Sudan è il primo produttore al mondo di questa resina naturale, utilizzata come addensante e stabilizzante nell’industria alimentare. Non è un caso che le sue esportazioni non siano mai state bloccate: senza gomma arabica non si potrebbero produrre Coca-Cola e Pepsi (gli analisti americani hanno coniato una definizione caustica: «Soda pop diplomacy»).

Chiarito che tutti i grandi attori della politica internazionale e le multinazionali ad essi legate sono comprensibilmente interessati ai destini del Sudan – e pertanto non hanno tardato a posizionarsi, in base ai propri calcoli, dall’una o dall’altra parte del campo di battaglia, contribuendo ad alimentare la crisi –, va preso atto che questa guerra, come molti altri conflitti africani, non è originata da oscure trame internazionali: è innescata da cause endogene, nella fattispecie riconducibili alla contesa del potere dei leader dei due schieramenti, entrambi farabutti sanguinari. In Sudan non ci sono i buoni contro i cattivi. Né grandi burattinai stranieri che hanno mosso per primi i fili della crisi. Ci sono la spietatezza e la miseria umana di due generali e la sofferenza della popolazione, l’unica che meriti la nostra vicinanza. Bisogna prenderne atto: l’Africa non sempre subisce gli eventi manovrati sulla sua testa dalle grandi potenze. Non è inerte e passiva. È in grado di scriverla da sé, la storia. Anche le pagine peggiori.

Editoriale del numero di luglio-agosto della rivista Africa

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