Libertà di stampa, in Africa è una chimera

di Enrico Casale
giornalista in etiopia

In Africa, la salute della libertà di stampa è precaria. È questo il quadro che emerge dal World Press Freedom Index 2020, pubblicato ieri, Giornata internazionale della libertà di stampa, da Reporter senza frontiere (Rsf). Qualche miglioramento rispetto al passato c’è stato ma, in generale, chi produce notizie e informazioni lavora in condizioni difficili, talvolta critiche.

Negli ultimi anni, la caduta di numerosi dittatori e governi autoritari ha migliorato le condizione degli operatori dei media in Angola (che è passata dal 109° al 106° posto dell’indice), Etiopia (ora al 99° posto, 11 in più dello scorso anno), Gambia (all’87°, era all’92°), Rd Congo (dal 154° al 150°), Sudan (al 160° al 159°) e Zimbabwe (al 126°). «In questi Paesi – commentano gli analisti di Rsf –, è stato allentato “il cappio” introno al collo dei giornalisti».

Tra le buone notizie ci sono i grandi progressi ottenuti dal Sudan dopo la caduta del presidente Omar al-Bashir nell’aprile 2019. Il numero di attacchi diretti, arresti di giornalisti e censura dei giornali è diminuito considerevolmente, sebbene le organizzazioni giornalistiche, in particolare quelle online, siano ancora monitorate. Secondo le informazioni ricevute da Rsf, la Cyber ​​Jihadist Unit, una derivazione dei servizi di intelligence, è ancora attiva e continua a seguire le attività dei giornalisti.

In Africa, tuttavia, sono ancora lontani i profondi e necessari cambiamenti per consentire al giornalismo africano di fare un grande salto di qualità e diventare autenticamente libero e indipendente. Alcuni Paesi hanno disceso la classifica. Per esempio, la Tanzania (in calo di sei posizioni e ora al 124° posto) e il Benin (in calo di 17, al 113°), dove si sono registrati aumenti degli arresti e delle detenzioni arbitrarie, così come degli attacchi online. Sono state approvate nuove leggi che potranno frenare la libertà di stampa e informazioni con il pretesto della lotta alla disinformazione e alla criminalità via web.

In Africa, i giornalisti continuano a rischiare la vita e gli assassini rimangono generalmente impuniti. Secondo i dati di Rsf, 102 giornalisti sono stati uccisi nel continente negli ultimi 10 anni, la metà dei quali in Somalia. Proprio la Somalia rimane il Paese più pericoloso per i giornalisti, nonostante i significativi progressi nel punire gli agenti di polizia e i militari che commettono violenze contro i lavoratori dei media.

Nella Rd Congo un giornalista è stato ucciso nell’Ovest del Paese e i colleghi sono stati costretti a fuggire per evitare lo stesso destino. Le agenzie di stampa che hanno descritto la reazione delle organizzazioni nazionali e internazionali all’epidemia di ebola sono state prese di mira da milizie e criminali comuni. In Ghana, il giornalista investigativo Ahmed Hussein-Suale è stato ucciso e le indagini non hanno portato all’arresto dei responsabili. In Nigeria, gli omicidi di due giornalisti sono ancora in libertà.

La sicurezza dei giornalisti rimane un grosso problema e richiede una maggiore protezione legale. A questo proposito, l’abolizione delle pene detentive inflitte ai giornalisti per lo svolgimento del loro lavoro rimane ancora troppo spesso sulla carta. Alcuni giornalisti, come Amadou Vamoulké, ex capo dell’emittente radiofonica e televisiva statale del Camerun, sono stati indagati da tribunali speciali e sono ancora in attesa di un processo. Vamoulké è detenuto dal 2016 senza che un giudice abbia affrontato il suo caso. L’Eritrea è l’unico Paese in Africa in cui i  giornalisti non hanno ancora alcun diritto e vengono arrestati e detenuti in modo arbitrario.

Nel 2019 Rsf ha denunciato la detenzione senza giustificato motivo di 171 giornalisti nell’Africa subsahariana. Più della metà dei Paesi africani ha fatto ricorso a tali pratiche, anche là dove le leggi locali, in base alle rispettive Costituzioni, avrebbero già dovuto depenalizzare i reati a mezzo stampa. Spesso a giustificare gli arresti sono norme approvate con il pretesto della lotta alla disinformazione e alla criminalità via web.

«Queste leggi – osservano i responsabili di Rsf – non raggiungono mai gli obiettivi dichiarati, ma possono essere facilmente utilizzate per limitare la libertà di informazione. Le leggi della stampa vengono eluse e i giornalisti sono accusati di essere, tra le altre cose, terroristi, spie, truffatori o criminali informatici allo scopo di zittirli».

In Ciad, per esempio, l’accusa contro l’editore di giornali Martin Inoua Doulguet è stata tramutata da diffamazione in cyberbullismo. Le accuse al giornalista investigativo tanzaniano Erick Kabendera sono state cambiate tre volte con l’obiettivo di non rilasciarlo. È stato rilasciato dopo sette mesi, ma le accuse non sono cadute. La sua detenzione arbitraria è una delle ragioni del forte calo della Tanzania nell’Indice di Rsf.

Tra le nuove minacce, la cyber-censura continua a guadagnare terreno ed è diventata un’arma molto efficace contro il giornalismo in Africa. Dal 2015, quasi la metà dei Paesi dell’Africa subsahariana ha utilizzato la cybersensibilità, di cui almeno 10 solo nell’ultimo anno. Tra questi la Rd Congo, la Mauritania, il Malawi e l’Etiopia. Il Ciad detiene il primato in questo senso, avendo tagliato i social media per 470 giorni consecutivi, privando giornalisti e cittadini dell’accesso ai notiziari essenziali.

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