Kubu Island, l’isola che non c’è

di claudia
baobab

di Gianni Bauce

L’incantevole Kubu Island nell’immenso deserto di sale del Botswana. Nel cuore del Parco Nazionale Makgadikgadi, sul fondo abbagliante e salato di antichi laghi disseccati sorge un’isola di granito che sembra un miraggio. I suoi enormi baobab e massi levigati creano un paesaggio di favola, la cui origine è avvolta in un affascinante mistero

Alcuni, entrando nella grande salina, vengono assaliti da una smania sfrenata di correre nell’immensa distesa di sale senza confini, colti all’improvviso da un euforico senso di libertà. Altri cadono in un’angosciosa sensazione di smarrimento: il piede si solleva dall’acceleratore e lo sguardo corre indietro, verso l’ultima macchia d’erba alle proprie spalle, come un marinaio che volge un ultimo sguardo alla terra prima d’affrontare il mare aperto. Nessuno, comunque, rimane indifferente di fronte alla grande salina.

Nel Botswana nord—orientale, un centinaio di chilometri a nord-est della Central Kalahari Game Reserve, si estende una depressione di circa 12.000 chilometri quadrati, interamente ricoperta di sale misto a fango, la cui superficie candida riverbera al sole subtropicale: è l’enorme bacino del Makgadikgadi.

Il Makgadikgadi Pan rappresenta le vestigia di un antico lago salato, prosciugatosi circa diecimila anni fa. Durante la stagione secca, quando il fango e il sale essiccano, formando una crosta dura, la depressione diventa un deserto di sale, tra i più vasti del mondo. Con le piogge, però, essa si trasforma in un acquitrino salmastro, che attira numerose specie di uccelli, tra i quali anche fenicotteri e pellicani.

L’origine del Magkadigkadi è legata a quella del Kalahari e risale a circa 100 milioni di anni fa, quando, in seguito alla rottura del Gondwana, il super-continente primordiale, il frammento che sarebbe in futuro divenuto l’Africa, iniziò un lento sollevamento, che generò tre immense depressioni nel continente: quella del Ciad, del Congo e quella del Kalahari nell’Africa australe, che restarono sempre immensi bacini naturali.

Durante la glaciazione del Cretaceo, circa 5 milioni di anni or sono, vennero a crearsi condizioni climatiche di forte siccità, in quanto i ghiacci assorbirono gran parte dell’umidità atmosferica e 2 milioni di anni più tardi, fortissimi venti modellarono un complesso di dune che correvano in direzione est-ovest. Dopo l’era glaciale, col ritorno delle piogge, queste dune formarono tracciati orografici che incanalarono l’acqua dirigendola in parte verso l’Oceano Atlantico e in parte verso il bacino del Magkadigkadi, al centro della depressione del Kalahari: i fiumi “fossili” come l’Okwa, ancora oggi visibili nel Kalahari centrale, sono una testimonianza di quel periodo di abbondanza idrica. I tributari del Magkadigkadi, però, non portarono soltanto acqua, ma anche sedimenti che innalzarono i fondali del bacino e, in concomitanza ad un nuovo inaridimento del clima, portarono il lago al prosciugamento.

Nell’area, oggi, si distinguono due principali distese di sale dette “saline” o “salt pan”: Sowa Pan e Ntwetwe Pan. Durante le piogge, quasi tutta l’area è inaccessibile, ma, a stagione secca inoltrata, lo strato superficiale di sale misto a fango si prosciuga, creando una crosta dura che può reggere il peso di un automezzo.

Vista surreale

Entrando nella salina, ogni punto di riferimento scompare, la prospettiva viene improvvisamente distorta dall’immensità dello spazio e dal bagliore del riverbero, e le distanze alterate. Così, le poche macchie erbose che si scorgono ancora in lontananza paiono importanti isole distanti chilometri, per rivelarsi, invece, modesti cespugli.

In questo paesaggio irreale, giungendo da sud si scorge all’improvviso una vera e propria isola di granito, che si eleva dal mare candido di sale, sul lato occidentale di Sowa Pan, tanto incongrua da sembrare un miraggio, e gli enormi massi levigati che si stagliano sull’orizzonte piatto sembrano i bastioni di una vera isola sulla piatta distesa dell’oceano, dalla quale grotteschi baobab si elevano contorti, creando un paesaggio da favola. Siamo a Kubu Island.

Kubu è un luogo incantevole e surreale, arso dal sole di giorno e attanagliato dal freddo del deserto durante la notte, ma quando la luce dell’alba accarezza di freddi colori la roccia o i raggi al tramonto li accende di porpora, l’isola si ammanta di incanto.

Kubu Island in Botswana

Origini misteriose

Vi sono diverse opinioni sull’origine del nome kubu. Questa parola in lingua tswana significa “ippopotamo”. Il toponimo Isola degli ippopotami ha indotto molti a immaginare l’epoca remota in cui il bacino del Makgadikgadi era ancora un enorme lago e Kubu una vera e propria isola, lungo le cui coste sguazzavano centinaia di ippopotami.

Tuttavia, la teoria più accreditata è quella che fa risalire il nome al termine lekubung, che in tswana significa “muro di pietre”. Le sorprese dell’isola, infatti, non si limitano al forte impatto scenico del paesaggio, ma, addentrandosi tra rocce e baobab (l’isola è larga meno di 800 metri), si scopre ben presto una bassa struttura in pietra, dall’inequivocabile origine antropica: si tratta di un muro di pietre non cementate, alto circa un metro, che corre lungo tutto il perimetro orientale dell’isola, sulla cui genesi vi sono pareri discordanti. Alcuni sostengono che sia opera di genti provenienti dall’ormai decaduta civiltà di Great Zimbabwe, anche se l’architettura del muro è primitiva e lontana dalle raffinate tecniche murarie dell’antica Zimbabwe. Altri sostengono, invece, che il muro di pietra sia stato eretto dagli antichi abitanti dell’isola, nel tentativo di difendersi dall’invasione dei guerrieri ndebele di re Mzilikazi a metà Ottocento.

Baobab monumentali

Benché l’origine del muro resti ancora un mistero, Kubu e il suo muro vengono ancora oggi considerati luogo di culto, e chiunque visiti l’isola è tenuto a rispettarlo, astenendosi dal rimuovere o asportare pietre e altri reperti. Nonostante il suo fascino magico, Kubu non è l’unica attrazione della grande salina: nella sua parte più settentrionale, a circa 30 chilometri dal villaggio di Gweta, si staglia il famoso baobab di Chapman, uno spettacolare esemplare di Adansonia digitata che possiede una circonferenza di circa 25 metri e si ritiene possa essere il baobab più grande del mondo. Più a nord, lungo la pista che conduce allo Nxai Pan national park, si trova uno spettacolare complesso di baobab che il pittore ottocentesco Thomas Baines, condotto sul luogo dal cacciatore ed esploratore James Chapman (da cui il gigantesco baobab prende il nome), dipinse in un memorabile quadro. Da allora, il boschetto di baobab sulla distesa di sale prende il nome di Baines Baobabs.

Sul margine settentrionale della salina, nei pressi della cittadina di Nata, sorge il Nata Birds Sanctuary, un’area protetta nella quale si possono ammirare i fenicotteri rosa e i fenicotteri minori. Quando le piogge riempiono d’acqua il bacino, la salina si tinge del bianco e del rosa degli stormi, che possono raggiungere anche migliaia di esemplari.

Questo articolo è uscito sul numero 2/2023 della rivista Africa. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop

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