In Somalia per costruire speranza e curare le ferite invisibili

di claudia

a cura di GRT

Trent’anni di guerra civile hanno lacerato i rapporti sociali e fatto esplodere il problema della salute mentale, specie tra i giovani somali che soffrono di depressione e altri disturbi psichici. In loro soccorso si è attivata da tempo una piccola Ong italiana, Gruppo per le Relazioni Transculturali (GRT), impegnata nella città di Chisimaio in un intervento psicosociale dai risvolti formidabili

Dall’inizio degli anni Novanta, per il popolo somalo non c’è tregua. La guerra civile segna l’inizio di trent’anni di instabilità e violenza, di cui gli attentati terroristici delle milizie al-Shabaab rappresentano le forme più recenti. Questo avviene in un contesto dove siccità e carestie, croniche nell’area, si susseguono ora con maggior frequenza a causa del surriscaldamento globale generando un flusso continuo di nuove persone in fuga.

Sono circa 3 milioni gli sfollati interni, di cui un milione quelli “nuovi” generati nel solo 2023 per concause legate a condizioni ambientali e di insicurezza.

Le conseguenze di tale scenario hanno generato elevati livelli di stress psicologico e allo stesso tempo minato alla base i sistemi di coesione sociale tradizionali, lacerando la fiducia tra le persone e nei confronti del futuro.

È difficile essere giovani in un simile contesto. Ogni volta che alzi la testa succede qualcosa che te la fa abbassare, ti senti bloccato, senza possibilità di essere padrone del tuo futuro e, spesso, neppure del tuo presente.

Noi di GRT (Gruppo per le Relazioni Transculturali) siamo stati chiamati dalla cooperazione tedesca per costruire un intervento di salute mentale e supporto psicosociale collegato a un ampio programma di inserimento lavorativo ed educativo nella città di Chisimaio nel sud della Somalia.

Questa città portuale appena sotto l’equatore è diventata un laboratorio sociale di non facile gestione, dove, oltre ai residenti, vivono migliaia di sfollati e, sempre più numerosi, i cosiddetti ritornati, giovani e anziani che hanno vissuto per anni nei campi profughi all’estero e ora sono rimandati indietro, volontariamente o coercitivamente.

Ali è uno dei rimpatriati dal campo profughi di Dadaab, in Kenya, dove è cresciuto e dove non aveva mai conosciuto violenza: «Quando sono arrivato a Kismayo, ho assistito a molte cose che mi hanno scioccato, come esplosioni e colpi di pistola. Ne avevo solo sentito parlare, ma non l’avevo mai vissuto». Ali segue un corso di meccanica, ma nel nuovo contesto è bloccato dalla paura, perde fiducia nei propri mezzi, non sa come gestire le sue reazioni, a cui non riesce a dare neppure un nome. Il suo insegnante era uno dei tanti educatori informali che avevamo formato. Parrucchieri, insegnanti di inglese o di computer, meccanici a cui è stato insegnato a riconoscere e a non stigmatizzare forme di disagio e fragilità che sempre più spesso vediamo emergere nei giovani somali. Grazie alla segnalazione è stato inserito in uno dei gruppi di auto-aiuto dove ha «imparato a gestire lo stress, a codificare quello che stava succedendo intorno e dentro di lui (…) a sentire una rete di supporto» che gli ha permesso di completare il corso e di lavorare come meccanico per le vie della città.

Un’altra intuizione è stata quella, con grandi precauzioni, di supportare le leghe sportive locali e ridare vita al campionato di basket femminile, amatoriale e a porte chiuse. Questo ha permesso di far interagire giovani ritornate e residenti e sperimentare attraverso lo sport la reciprocità, il rispetto, la cooperazione. È stato emozionante vedere gli sguardi illuminati dal sorriso delle ragazze, che alzavano la coppa al cielo consegnata da una vecchia leggenda del basket somalo, supportate da tutte le ragazze del torneo davanti a loro.

Lo sport ma anche l’arte e la valorizzazione della straordinaria cultura somala sono stati i nostri punti di aggancio per costruire un intervento psicosociale culturalmente sostenibile, che ha piantato i primi semi per una società più coesa e resiliente.

(contenuto redazionale di Coopera in Africa)

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