Il progetto che digitalizza il settore non profit

di claudia
tecnologia

di Michela Fantozzi – NuoveRadici.world

L’attivista e imprenditrice italonigeriana Ada Ugo Abara ha creato il podcast che segue la trasformazione digitale del terzo settore, per stare al passo con i tempi.

La trasformazione digitale a portata d’orecchio: questo è il motto di D-Tech Podcast, un progetto parte dell’iniziativa D-Tech 4Good dell’attivista Ada Ugo Abara. Si sa, le risorse a disposizione del terzo settore sono limitate e l’aggiornamento dei sistemi di lavoro in chiave digital può spaventare. Per questo e per semplificare la vita alle realtà no-profit nasce il podcast, dove si possono ricevere spiegazioni comprensibili a tutti sui software utili in ambito lavorativo e ascoltare interviste ricche di consigli da parte di esperti digital del terzo settore.

NRW incontra di nuovo Ada Ugo Abara, presidente dell’associazione Arising Africans, per parlare del suo progetto podcast rivolto a giovani imprenditori in ambito sociale e culturale.

 Che cos’è D-Tech Podcast?

«D-Tech Podcast è un progetto multimediale che nasce dalle domande, i dubbi e le curiosità che avevo raccolto nel corso degli anni lavorando a stretto contatto con giovani imprenditori oppure con le associazioni della cooperazione internazionale. Pur avendo delle competenze digitali, queste realtà a volte non riuscivano a sfruttarle e incanalarle in strumenti di supporto per lo svolgimento del lavoro. Perciò ho deciso di utilizzare uno strumento smart come quello del podcast per rispondere alle loro domande pubblicamente e in modo accessibile a tutti».

Perché ha scelto come mezzo preferenziale il podcast?

 «Sono partita dall’analisi di quanto tempo spendiamo noi online ogni anno e ogni giorno. Ci sono alcune piattaforme, tra cui We Are Social, che ogni anno raccolgono i dati sull’utilizzo di internet in tutto il mondo. Guardando i dati dell’Italia all’epoca, e questo prima della pandemia, ho visto che passavamo online già circa 6 ore al giorno. Di quelle sei ore al giorno ne spendevamo più di una su strumenti di ascolto e streaming».

Meglio il podcast di YouTube, quindi?

«Non ho scelto YouTube perché presuppone un impegno con i video, un minimo di preparazione e di strutturazione del contesto. Io volevo fare qualcosa che fosse facilmente realizzabile da qualunque luogo e che non andasse ad intaccare troppo il consumo dei dati. La risposta è stata il podcast. Ascoltarlo è una cosa che possiamo fare da qualunque posto e anche mentre stiamo facendo altro, senza dover bloccare le altre attività quotidiane».

Quali sono le maggiori difficoltà che ha riscontrato cercando di realizzare questo progetto?

«Penso che il mio punto debole sia il fattore tempo. Il podcast è uno strumento che richiede una certa costanza e una certa immediatezza anche dei contenuti; quindi, riuscire a trovare il tempo mentale per fare la sintesi di tutte le cose che mi frullano in testa e seguire poi il piano di pubblicazione è stato difficile all’inizio. Poi altre criticità che sono state superate riguardavano come rendere facilmente reperibili i contenuti. Anche per questo non ho utilizzato soltanto lo strumento dei social, perché è molto diversivo, ci invade di contenuti ogni giorno ed è difficile trovare ciò che stai cercando. Invece il podcast ha come canale preferenziale l’ascolto e in più ha un’interfaccia ordinata, le puntate sono tutte organizzate e sono sempre lì».

Quali sono state finora le puntate di D-Tech Podcast che le hanno dato maggior soddisfazione?

«Direi che la primissima puntata registrata è quella che ad oggi mi dà più soddisfazione. Era una puntata sullo smart working e l’ho pubblicata proprio nei primi mesi del 2020, quando vedevo le persone in profonda crisi, cercando di adattare il lavoro a questa nuova modalità. Io lavoravo in smart working anche prima della pandemia, quindi ero già molto a mio agio con le nuove modalità di lavoro. Ero nella posizione ideale per dare qualche input non solo a livello di software e strumenti da utilizzare ma anche proprio come impostazione del lavoro.

“Un’altra puntata che mi piace molto è l’ultima, che affronta il tema del time management. Quando si parla di strutturazione del lavoro io sono sempre contenta perché so che siamo tutti invasi da mille input, la giornata di lavoro è caotica e dispersiva”.

«Quindi, avere qualche aiuto in più su come strutturare il lavoro e renderlo più facile credo sia sempre un ottimo aiuto. Sono contenuta di tutte le puntate, ma queste sono quelle che mi entusiasmano di più».

Quali sono gli obiettivi che vorrebbe raggiungere con il podcast?

«Vorrei che, in un mondo ideale, tutte le realtà italiane di questo ambito diventassero fedeli ascoltatori. Vorrei riuscire ad accelerare l’avvicinamento alla tecnologia da parte del mondo del terzo settore italiano. Vorrei che fossimo noi a diventare i primi promotori di innovazione e non solo accodarci al progresso altrui. Inoltre, il podcast è inserito all’interno di un progetto più grande, D-tech 4 Good, che attraverso le consulenze e il blog spero facciano la differenza in Italia».

Il podcast è inserito all’interno di un progetto chiamato The Unseen Profiles. Che cos’è?

«The Unseen Profiles era un database che è stato poi trasformato in un sito di job posting per connettere le aziende italiane e internazionali con i professionisti da inserire nel proprio organico attraverso l’accesso diretto ad una lista di persone di origine straniera formate in Italia.

“Questo progetto punta a invertire la tendenza del mercato del lavoro italiano, che lascia nell’ombra le persone di origine straniera, non vede le competenze che sono già presenti sul territorio e quindi mira a rendere visibili i profili che prima erano lasciati da parte”.

«Questo non è un tentativo di favorire l’inserimento lavorativo di persone soltanto per via del colore della pelle o la provenienza, ma per permettere a tutti di avere le stesse opportunità».

 Perché ha deciso di partecipare con il podcast?

«Ci sono in Italia professionisti che sono formati nelle università e nei percorsi professionalizzanti del Paese che però, appunto, quando arriva il momento di essere inseriti in un contesto lavorativo non vengono presi in considerazione perché non si sa della loro presenza.

«D-tech è partner di questo progetto, per il quale ha curato principalmente la parte relativa al sito e all’architettura tecnica. Lo faccio perché è nella mission di D-tech promuovere le tecnologie e gli strumenti che vadano ad aumentare l’impatto sociale».

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