I paradossi di Nairobi

di claudia

di Freddie del Curatolo e Leni Frau

La capitale del Kenya come doveva essere… e com’è. I funzionari britannici dell’era coloniale la sognarono come un agglomerato di città-giardino. Qualcosa è andato storto e oggi Nairobi sembra la fotografia del fallimento delle politiche urbane. Ma dietro l’apparenza si celano le sue molteplici identità

Questo testo è tratto dal volume Nairobi (OGzero – Orizzonti geopolitici, 2022, pp.137, 13 euro) firmato dal giornalista Freddie del Curatolo e dalla fotografa Leni Frau. Il libro fa parte della collana Le Città Visibili, che vede protagoniste altre importanti capitali africane, di cui abbiamo già pubblicato le presentazioni di Freetown e Lusaka, coordinata da Angelo Ferrari

La prima cosa, la più semplice, che a chiunque viene da pensare al cospetto di Nairobi, è come sia la città dei contrasti, delle contraddizioni. Specie quando alle contrapposizioni paesaggistiche, architettoniche ed etniche si aggiunge la variabile economica, facendo confluire il tutto nel calderone delle diseguaglianze sociali.

In questo senso, le cartoline-tipo sono rappresentate dal questuante vestito di stracci sotto uno degli scintillanti grattacieli del Central Business District, dai loculi di lamiera ammassati sulle colline di uno slum con lo sfondo dello skyline della metropoli, dal Boeing 747 che decolla sopra la più vasta discarica d’Africa, dai moderni e rassicuranti centri commerciali poco distanti dai caotici e pulsanti mercati di fango e legno. Ma anche dal maestoso leone in posa nel Nairobi National Park, con lo sfondo dei palazzi di trenta piani, da migliaia di bambini sorridenti che corrono scalzi con le loro divise scolastiche colorate dribblando le buche di strade di periferia e da ospedali fatiscenti dove madri in coda da ore si accasciano stremate a poche centinaia di metri da locali di lusso in cui amministratori pubblici sfilano uscendo da Mercedes con abiti firmati e oro ostentato sulle nocche e intorno al collo.

Chi oggi definisce Nairobi una “città di contrasti”, sappia che più che la volontà degli inglesi, che (bontà loro) avrebbero creato un certo numero di ghetti satellite convergenti, e l’indomita coerenza degli africani, è stata la classe media, dai commercianti indiani ai nuovi ricchi keniani, a rinvigorirne il concetto e che, dall’indipendenza del Paese, antitesi e disarmonie sono perfino aumentate.

Cartoline del passato

Era evidentemente nel suo destino, diventarlo. Il primo a definirla così fu lo scrittore americano Stewart E. White, appassionato cacciatore e curioso esploratore sociale, nel suo romanzo African Camp Fires, pubblicato nel 1914.

«La popolazione bianca ha costruito nelle colline boscose alcuni affascinanti cottage circondati da fiori luminosi o persi tra i tronchi di grandi alberi. Dalle alture si può, con un bicchiere in mano, guardare le mandrie di animali selvatici che si nutrono nelle pianure. Due club, con i soliti giochi di golf, polo, tennis – soprattutto tennis – calcio e cricket; una caccia settimanale, con sciacalli al posto delle volpi… Perché non bisogna dimenticare che Nairobi è nel mezzo di una desertica savana africana. Gli animali si cibano fino alla sua periferia, si aggirano anche per le strade di Nairobi. I leoni possono essere sentiti ruggire entro un miglio o giù di lì dalla città e leopardi occasionalmente di notte vengono sulle verande delle abitazioni.

Uomini selvaggi nudi della giungla non toccati dalla civiltà, nemmeno nel più piccolo particolare, vagano per le strade senza ritegno. È tale contrasto costantemente ricorrente e nettamente disegnato che dà a Nairobi il suo fascino piccante».

nairobi

Il mondo di Karen Blixen

Nel 1920 la popolazione di Nairobi contava circa 22.000 abitanti. Più della metà, 12.000, erano neri. Ciononostante, gli europei mantenevano almeno tre quarti delle terre del distretto amministrativo.

Immigrati da nazioni vicine si erano insediati nelle zone periferiche, cercando a loro volta sorgenti e fazzoletti coltivabili. I somali erano sistemati tra il centro e la zona di Huruma, a pochi isolati dall’odierno quartiere di Eastleigh che è oggi la loro roccaforte. Ai nubiani provenienti dal Sudan, assoldati dall’East African Rifles, un reggimento delle forze armate coloniali britanniche, fu riservata una piana boscosa a sudovest della delimitazione urbana che loro stessi chiamarono “Kibra”, jungla nella loro lingua, e che nel tempo, rimasticata dai keniani, divenne Kibera. In quegli anni la scrittrice Karen Blixen, che viveva e gestiva le sue piantagioni di robusta ai piedi delle Ngong Hills, dove oggi sorge il distretto residenziale più old colonial della città che da lei ha preso il nome (Karen), così descrive Nairobi nell’immortale romanzo La mia Africa. «A Nairobi ci si doveva andare a cavallo, oppure su un carro tirato da sei muli che si lasciavano poi nelle stalle della Società dei Trasporti per gli Altipiani. Nairobi, allora, era una città eterogenea, con qualche bel palazzo nuovo in muratura, interi quartieri di bungalows, uffici e vecchie botteghe costruite con pezzi di lamiera ondulata, tra i filari di alberi di eucaliptus, nelle strade nude e piene di polvere… Ma, bene o male, Nairobi era sempre una città dove si poteva fare delle compere, sapere qualcosa di quello che succedeva nel mondo, pranzare all’albergo o andare a ballare al club. Una città piena di vita, in continuo movimento come acqua che scorre».

Sogno infranto

Il governo britannico, a dire il vero, aveva tentato una sorta di pianificazione, affidandosi alle idee visionarie di un urbanista che aveva teorizzato l’edificazione intelligente di un apparente paradosso, la urban countryside. In poche parole, l’opposto della via Gluck di Celentano. Ebenezer Howard nei primi anni Venti aveva visto completare dai suoi architetti il progetto della cittadina inglese di Letchwork Garden City, persa nel primo verde a nord di Londra, verso le tenute di Bedford e Cambridge. Primo esempio, secondo lui, di una modalità per gestire la grande migrazione dalle aree rurali verso la città. Mentre nel Regno Unito, con Londra già obnubilata da industria ed edilizia popolare e alle prese con il primo sovraffollamento delle periferie, la soluzione che racchiudesse in sé i benefici della vita urbana e di quella agreste era possibile solo in aperta campagna.

Si pensava che nella nascente Nairobi delle colline e della savana si potessero formare quartieri vivibili all’interno della municipalità, collegati tra loro da grandi strade. Città-giardino fondate su un equilibrio armonico tra residenza, industria e agricoltura. In pratica la visione dei seguaci di Howard di stanza in Africa era una Nairobi verde, composta da tanti satelliti abitativi abbastanza distanti tra loro da evitare di saldarsi, disposti a corona intorno al centro amministrativo e d’affari.

Caos anarchico

Il quadrilatero di Shauri Moyo (“suggerimento del cuore”, in kiswahili) è il primo esempio di insediamento pensato per una futura classe media di keniani, con scuole e negozi posizionati nelle intersezioni delle strade rettangolari o alla fine di percorsi circolari, con spazi verdi ai lati, con evidente riferimento al sobborgo londinese di Hampstead, sempre di scuola howardiana.

Aggirandosi oggi per Shauri Moyo, lo sguardo desolato si volge alle numerose costruzioni abusive che circondano le chimere di progetti, le altrettante baracche sorte dopo espropri di terreni, le numerose cicatrici di incendi o lavori mai terminati e nuovi palazzoni brulicanti di umanità che di Ebenezer Howard non hanno mai sentito parlare. Starehe oggi è il confine tra i grattacieli del Cbd (Central business district), gli uffici pubblici e privati, corporazioni, multinazionali, le immense avenue pensate per far sfilare le limousine o i suv presidenziali, e il caos. Protagonisti sono i matatu, gli anarchici autobus cittadini che sfrecciano, accostano, sorpassano, strombazzano senza tregua, le automobili che si adeguano e sfruttano la scia di furgoni imbizzarriti o si paralizzano al cospetto di pachidermici camion a rimorchio, mentre migliaia di motociclette s’infilano come insetti in ogni gassoso pertugio.

In questa confusione regolata in modalità casuale dalla traffic police a ogni rotonda, si muove la pittoresca processione di pedoni votati a divenire ologrammi, che nella scala della dignità parte dal travet in divisa da lavoro – giacca, cravatta e ventiquattrore di seconda mano – e arriva al chokora, il giovane clochard vestito a brandelli fuoruscito dallo slum più per abitudine che per sperare di raccattare il pranzo e la bottiglietta di colla da sniffare.

Quartieri-satellite

Oltre la disordinata circonvallazione, le impossibili arterie si diramano negli organi pulsanti di ogni satellite-corpo. Il fegato di Kamukunji, che porta al Gikomba Market, l’inferno di bancarelle che brucia almeno una volta al mese di un male doloso e risorge dal nulla di stracci, stecchi e fango in mezzo a cui si muovono le ceneri compatte di centomila fantasmi, mescolati tra altrettanti sopravviventi.

Lo stomaco di Ngara, propaggine dell’antico bazar indiano, costipato dell’andirivieni di veicoli commerciali, carichi e scarichi, negozi polverosi e street food, tra edifici a due o tre piani con un’idea di quarto, mezzi empori e mezzi capannoni e improvvisi vicoli regolati da un metabolismo impazzito dove non conviene farsi digerire.

Il colon di villette a schiera della ex tenuta Kariakor, dove sorge il mercato dell’artigianato locale e dove vengono prodotti gran parte dei souvenir e delle idee regalo per il turismo del Kenya, inglobate da fabbriche, depositi e aziende prevalentemente indiane.

Infine l’intestino di South B, dell’area industriale, del grigiore che combatte con il cielo basso africano e lo vela sputando fumi dalle ciminiere. Qui Nairobi produce, trasforma, rigetta ed espelle.

Metropoli frammentata

A pochi isolati dallo splendore della moschea Jumia e dal Kenya International Conference Center, si può salire sull’Expressway, la sopraelevata veloce a pagamento, costruita in poco più di due anni dalla China Roads & Bridges Corporation che fino al 2049 ne riscuoterà i pedaggi e si occuperà della manutenzione, secondo un accordo con il governo keniano. L’Expressway ha portato i contrasti a un livello superiore, aereo. La si osserva con il naso in su dal caos del Southern Bypass, dona una dirittura morale al disordine edilizio dell’area industriale, si pone allo stesso tempo come definitiva via di fuga e come pacemaker per l’involucro del Cbd, le cui pulsazioni fino a oggi hanno condizionato anche il resto del corpus della frammentata capitale. Ma resta un’operazione da alta cardiologia, per pochi eletti. Scrivono, le studiose Charton-Bigot e Rodriguez Torres nel loro Nairobi Today. The Paradox of a Fragmented City: «Per cercare un’identità unica a Nairobi, occorre trovare quelle delle diverse comunità che compongono la città e le cui dinamiche si vedono a livello di villaggio e di quartiere. Tuttavia, Nairobi è una città contraddittoria. Questa capitale dell’Africa orientale è spesso associata a baraccopoli e criminalità. E il loro aumento e la loro crescita stigmatizzano il fallimento delle politiche urbane. Pertanto, è in queste crepe e frange della città che dovremmo cercare le identità e le dinamiche che hanno plasmato Nairobi per un secolo».

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