I miei incontri con il re del blues del Mali

di claudia

di Marco Aime

Ali Farka Touré, scomparso nel 2006, è stato un grande chitarrista e cantante maliano. La sua musica nasceva sulle rive del fiume Niger e traeva forza e ispirazione dall’acqua. Suoni unici che scivolavano tra dolcezza e disperazione con una semplicità che solo la vita vera riesce a esprimere

Sono passati 17 anni da quando Ali Farka Touré ci ha lasciati. Era nato nel 1939 a Kanau, un piccolo villaggio sulla sponda del Niger, non lontano da Timbuctu. Sì, proprio la città che nel nostro immaginario vive sul confine tra mito e realtà lontana. Non a caso era solito scherzare dicendo: «Per qualcuno, quando dici Timbuctu è come dire “la fine del mondo”, ma non è vero. Io vengo da Timbuctu e posso dirvi che siamo proprio nel cuore del mondo». Per lui i genitori scelsero il nome farka, che significa “asino”, animale che in Mali è ammirato per la sua tenacia e robustezza.

Il mio primo incontro con la sua musica avvenne nel 1995. Mio padre era appena mancato e un amico mi regalò un cd dicendomi: «Ti terrà compagnia». Era Talking Timbuktu. Dalle casse usciva un suono che scivolava tra dolcezza e disperazione con una semplicità che solo la vita vera riesce a esprimere. La voce, che al primo ascolto sembrava stridula, diventava di volta in volta accecante nel suo tagliare l’aria e raccontare storie di anime.

Il secondo incontro fu di persona e proprio là, nel centro/limite del mondo, nella sua grande casa pigramente appoggiata sulle rive del Niger. Lui era lì, seduto su un tappeto, mentre nel cortile grandi e piccini si ammassavano davanti a un enorme televisore acceso. Aveva davvero l’aria di un patriarca d’altri tempi. Il suo modo di parlare aveva i tempi e i ritmi dei griot. Sempre pronto alla battuta, terminava spesso i suoi discorsi con un proverbio, com’è tipico della tradizione maliana, che induceva a pensare.

Chiacchierammo di musica e mi accorsi solo dopo un po’ di quanto inadeguate fossero le mie domande. Per me Ry Cooder, con cui aveva realizzato Talking Timbuktu, è un grande della musica e gli domandai cos’avesse provato a suonare con lui. «Non ho guadagnato niente», disse, «ho solo dato, perché io sono di una terra dove si trovano l’ombelico e le radici della tradizione africana». Qualcuno lo ha definito “il John Lee Hooker del Mali”, cosa che non ha mai gradito, lui che ha sempre rivendicato il primato della sua terra su quella musica che sarebbe diventata il blues: «Mi hanno chiesto più volte qual è la differenza tra il blues americano e quello africano. Ho risposto che in Africa non abbiamo la parola blues. È senza significato». Mi ha spesso colpito come il complesso di inferiorità che gli africani tendono ad avere nei confronti dei bianchi svanisca quando si scende sul terreno della musica. «Il senso della musica è universale, però ho visto tanti occidentali venire qui a imparare a suonare la kora, lo xilofono, le percussioni, ma non ho mai visto un africano andare in Europa per imparare a suonare o a ballare».

Un documentario di Martin Scorsese s’intitola Dal Mali al Mississippi, ma nel film il viaggio va in senso opposto: parte da storie di vecchi bluesmen per approdare in riva al Niger, dove il protagonista incontra Ali e suona con lui. Puoi chiamarla come vuoi, ma quella musica, quella, viene di lì. Quelle corde tirate, quelle note strozzate legano il Niger al Mississippi. Due fiumi, acqua che scorre, un tema che ritorna spesso nei titoli di Ali Farka Touré. «La mia ispirazione viene dall’acqua. È col fiume che lavoro. Quando lo vedo, l’ispirazione mi entra dentro. È il paesaggio che dà la forza. La musica incoraggia l’agricoltore, l’allevatore, il pescatore, a fare meglio il loro lavoro. Potrei incidere tre cd in un giorno. Io non scrivo mai la musica. Non ho nemmeno un registratore. Lavoro con le idee e la sera, se la pancia è piena, nel mio giardino lo spirito vola nelle nuvole».

La terza volta che lo incontrai, fu nel 1998 a Villa Arconati, a Bollate, dove Ali teneva un concerto. Riuscii a parlarci prima che iniziasse. Sedemmo anche allora su un tappeto, messo lì per lui. Gli dissi che più ascoltavo i suoi pezzi e quelli di altri maliani, più avevola sensazione che la musica, tutta la musica, nascesse dai suoi luoghi. «È la verità», disse ridendo.

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