Piove, governo ladro! Un modo di dire nato per sbeffeggiare l’attitudine a lamentarsi delle autorità per qualsiasi motivo ma che a volte può perdere il suo senso ironico e risultare drammaticamente reale.
Infatti se la politica e le istituzioni non hanno potere sul meteo e sulle precipitazioni possono avere però precise responsabilità sulla prevenzione di catastrofi come alluvioni, esondazioni e frane; una responsabilità resa ancora più urgente dall’aumentare dell’intensità di fenomeni estremi a causa dei cambiamenti climatici.
Negli ultimi mesi buona parte dell’Africa sub-sahariana è stata scossa da eventi drammatici che hanno messo in ginocchio molte importanti città del continente. Un triste elenco che parte da Abidjan a fine giugno quando una frana e un’alluvione a distanza di pochissimi giorni hanno causato oltre 20 vittime e che attraversa l’intera fascia saheliana, da N’Djamena a Niamey, per concludersi nei giorni scorsi con le alluvioni in Burkina Faso e a Dakar ma soprattutto con la disastrosa esondazione del Nilo Azzurro in Sudan che ha interessato oltre mezzo milione di persone. Se si allarga lo sguardo agli anni passati emergono tragedie ancora più imponenti come la distruzione di Beira da parte del ciclone Idai o la grande frana che ha colpito la periferia di Freetown nell’agosto 2017. Fenomeni che non sono certo nuovi nella regione: alluvioni ed esondazioni sono da sempre un evento atteso in ogni stagione delle piogge, tuttavia i dati evidenziano come la frequenza e l’intensità di questi disastri vada aumentando. E a crescere sono soprattutto i danni, in termini di vite umane o di distruzioni di beni e servizi: l’esplosione dell’urbanizzazione e della densità di popolazione in determinate aree ne aumenta a dismisura la vulnerabilità, specialmente in quartieri informali o comunità svantaggiate. Non solo vittime o perdita diretta di proprietà: i danni di ritorno di questi fenomeni possono essere molto gravi, soprattutto dal punto di vista sanitario, favorendo la diffusione di malattie come diarrea, colera, tifo o leptospirosi.
Le cause sono molteplici e riguardano l’assenza di pianificazione, il disboscamento e l’impermeabilizzazione del suolo, la carenza di infrastrutture anche basilari come i canali di scolo ai bordi delle strade ma anche la cattiva gestione della raccolta dei rifiuti che, accumulandosi negli scarichi o nei letti di torrenti, impediscono all’acqua di defluire e creano inondazioni. Una serie di concause che unite ai cambiamenti climatici in atto crea un mix esplosivo chiamando in causa molteplici attori, dai governi centrali agli enti locali, fino a giungere al singolo cittadino. Non a caso gli interventi più efficaci per la prevenzione e la riduzione del rischio partono proprio dal basso, attraverso il tentativo di informare le comunità locali sull’importanza della prevenzione: conoscere le situazioni di rischio e adottare comportamenti corretti è ovviamente fondamentale. Un approccio intrapreso con successo dalla città di Freetown, in cui sono state lanciate iniziative partecipative per la pulizia e la manutenzione dei canali di scolo e la gestione dei rifiuti nelle circoscrizioni più a rischio. È però sul fronte infrastrutturale che la partita è complessa: rincorrere a posteriori la gestione delle acque non è impresa facile e, con i tassi di urbanizzazione attuali, gli interventi sono in cronico ritardo: come a Dakar, per esempio, in cui il piano decennale contro le alluvioni lanciato nel 2012, e quindi ormai nella sua fase conclusiva, non sembra aver sortito gli effetti sperati. Tutta colpa di governi ladri? Sicuramente no, ma l’aumento dei fenomeni alluvionali e delle vittime innocenti che restano sul campo impongono un cambio di marcia nell’individuazione di soluzioni resilienti alle emergenze climatiche.
(Federico Monica, autore dell’articolo, sarà relatore del seminario, organizzato dalla rivista Africa, “L’Africa delle città”. Per info e prenotazioni, clicca qui)