Al Festival del Cinema Africano, un film di denuncia

di claudia

di Annamaria Gallone

Domani, martedì 21 Marzo ore 19:00, presso la Cineteca Milano Arlecchino all’interno del Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina, verrà proiettato il lungometraggio HARKA del regista tunisino Lofty Nathan. Un’opera di forte denuncia, che ruota attorno a un punto saliente: dopo un decennio dalla “primavera araba” nulla sembra essere cambiato in meglio. Il film sarà visibile per gli abbonati al Festival anche su MYmovies.it da martedì 21 Marzo alle ore 21:00 fino a venerdì 24 Marzo ore 21:00. Per maggiori info: fescaaal.org

Il regista, durante gli studi negli USA,  ha realizzato un documentario di grande successo: 12 O’CLock Boys sui motociclisti urbani di Baltimora, nel Maryland, e sul fascino di un ragazzo per le moto da cross. Di tutt’altra ispirazione la su prima opera di fiction.

Il titolo, Harka, in arabo, significa “movimento” e più specificamente, si riferisce a un gruppo di soldati che si riuniscono volontariamente per combattere. Presentato al Certain Regard dell’ultimo Festival di Cannesè un film di lotta, d’impegno civile, un’opera di forte denuncia che per le sue tematiche e il modo di trattarle si inserisce nel filone del “neorealismo arabo”, sempre più presente. Personalmente, con uno sguardo europeo, lo accosterei a Ken Loach. A tratti mi ha ricordato un dramma urbano da cinema americano anni ’70 , anche per alcuni brani di jazz elettronico della colonna sonora. 

Il protagonista, Alì, intensamente interpretato da Adam Bessa, astro nascente del cinema franco-tunisino, è un giovane solitario e anonimo che alla morte del padre rientra in famiglia dove vivono il fratello maggiore e due sorelline ancora in età scolare. Il fratello, che si dice pronto ad emigrare, lo lascia intanto per andare ad Hammamet per un lavoro stagionale. 

Alì si trova sulle spalle, oltre alla responsabilità della famiglia, i pesanti debiti lasciati dal padre e deve trovare le risorse per evitare che la casa venga sequestrata. Impossibile trovare un lavoro regolare, e l’indifferenza del sistema lo porta all’esasperazione fino a fargli compiere gesti disperati. La sua unica fonte di reddito è quella di vendere bidoni di benzina annacquati per i quali riceve banconote logore che nasconde nel muro di un edificio fatiscente.

Poi il mercante gli propone il contrabbando di benzina e Alì accetta, con la speranza di potere un giorno raggiungere la tanta agognata Europa.

Una discesa verso il basso, poiché la sordità delle istituzioni e la corruzione della polizia mettono a tacere ogni speranza: una forte denuncia dell’ingiustizia e dell’immobilismo della società tunisina. Il film centra in pieno questa dinamiche con l’escalation di disperazione di Alì che non è un antieroe e gli spettatori sono sicuramente “dalla sua parte perché in realtà le sue intenzioni sono buone, e solo alla fine vediamo la sua forza di volontà vacillare. Il volto del protagonista esprime tutta la sua delusione e progressiva disperazione e lo scenario accompagna i suoi stati d’animo con miseri interni ed esterni squallidi e opprimenti.  Nonostante il finale tragico, la crociata di Alì non è stata vana.

La sua storia denuncia l’ipocrisia di un paese, il risveglio da un sogno che costringe a guardare alla realtà cancellando le illusioni. Dopo un decennio dalla “primavera araba” nulla è cambiato in meglio e la sola prospettiva è quella di emigrare in Europa.

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