Riflessioni intorno al G5 Sahel (che è appena finito)

di Stefania Ragusa

Sicuramente la creazione del G5 Sahel, nel 2014, ha risposto all’esigenza di restituire agli Stati saheliani – Burkina Faso, Mali, Niger, Mauritania e Ciad – la gestione dei processi di securitizzazione e sviluppo nella regione, a fronte di una minaccia – quella dell’estremismo violento – che dopo la crisi in Mali andava regionalizzandosi. Alla base vi era quindi un principio “African solutions to African problems”, e l’idea che non soltanto alla dimensione securitaria, ma anche a quella dello sviluppo dovessero guardare le politiche di gestione della crisi nell’area.

«È vero però che i risultati non sono stati del tutto soddisfacenti: se è apprezzabile lo sforzo di integrazione e di cooperazione regionale degli stati membri del G5, la scarsità di mezzi, risorse e, in qualche caso, volontà politica ha limitato l’efficacia delle politiche adottate nel quadro dell’organizzazione». Parte da questo punto l’analisi che Camillo Casola, ricercatore dell’Istituto per gli Studi di Politica internazionale (Ispi), fa del G5 Sahel, l’alleanza militare che riunisce cinque Paesi saheliani e che è stata fortemente sostenuta dalla Francia. Da un punto di vista militare, l’esercito comune degli Stati del G5 – la G5Sahel Joint Force – ha avuto gravi difficoltà di dispiegamento – nel 2018 il quartier generale della forza a Sévaré fu completamente distrutto da un attacco armato di insorti jihadisti – e ancora oggi fatica a imporsi, nonostante i progressi militari e le operazioni condotte sul terreno.

«Senza dubbio – dice Casola parlando con Africa Rivista – la relazione con la Francia è per certi versi ingombrante, ma non mi sembra si possano imputare all’influenza francese i limiti di efficacia dell’azione del G5, che anzi trova nel dispositivo Barkhane un supporto fondamentale: nel quadro della Coalizione per il Sahel varata nel corso del 2020, Barkhane e G5Sahel JF hanno costituito un comando congiunto, a dimostrazione di una buona cooperazione sul campo. È però innegabile che alcune posizioni espresse dalla Francia limitino l’autonomia decisionale dei partner africani per il peso politico che Parigi esercita sui governi saheliani e per la centralità del suo impegno militare: il caso esemplare riguarda la possibilità di negoziare con gli attori jihadisti, che è sempre più considerata eventualità concreta dagli stati della regione, e che tuttavia incontra sistematicamente le censure del governo francese».

Il G5 Sahel e le sue declinazioni (forza militare, alleanza politica) sono nate a causa dall’insicurezza nella regione, scoppiata dopo la guerra contro il presidente libico Muammar Gheddafi, che ha accelerato tensioni già presenti da tempo, e nella scia dell’intervento delle forze francesi. Ma nonostante tutto questo sforzo diplomatico-militare, i movimenti terroristici sono ancora attivi. Anzi, si sono divisi e moltiplicati, continuano a fare molte vittime civili e militari in Mali, Niger, Burkina e Ciad (anche se in quest’ultimo si tratta di derivazioni più legate alla Nigeria). Benché stati maggiori annuncino regolarmente vittorie militari, seguono sempre nuovi attacchi o attentati. Da qui, un crescente sentimento non solo di delusione, ma di accusa ai vertici francesi (soprattutto in Mali) di alimentare paradossalmente il conflitto.

«È così – conferma il nostro interlocutore – la Francia è sempre più spesso oggetto di attacchi da parte delle popolazioni saheliane – in Mali, Niger, Burkina Faso, ad esempio – e alcune personalità politiche locali hanno persino avvalorato tesi complottistiche secondo cui i francesi fomenterebbero l’insicurezza per preservare il controllo sulle risorse naturali (benché i soli interessi strategici francesi siano legati all’industria estrattiva dell’uranio nel nord del Niger). Si tratta di accuse infondate. È vero però che la frustrazione delle comunità locali nei confronti di una forza internazionale come Barkhane, che in quasi sette anni di attività non ha garantito un miglioramento della sicurezza, sono sempre più forti. La Francia è vista da molti come una forza di occupazione, anche in ragione del condizionamento che impone su alcune scelte politiche dei governi nazionali, e il passato coloniale non è sicuramente di aiuto: anzi è un elemento penalizzante per Parigi, nella misura in cui la competizione con i nuovi attori esterni nel continente, dalla Russia alla Cina, si fa sempre più forte».

Da qui secondo alcuni osservatori, la spinta della Francia a integrare un contingente europeo: Takuba. «La logica che ha motivato le pressioni francesi in direzione del dispiegamento di un nuovo contingente di forze speciali, la task force Takuba, risiede innanzitutto nella necessità di condividere con i partner europei i costi economici e politici di un’operazione militare sempre più difficile da sostenere come Barkhane. La Francia ha bisogno di ritirare parte dei propri contingenti, e intende farlo contestualmente all’impegno maggiore garantito dai partner europei sul terreno. Finora, il contributo europeo alla stabilizzazione del Sahel è stato limitato alla dimensione economica, alle iniziative di training, al controllo delle frontiere e alle operazioni bilaterali di supporto agli stati della regione: Takuba muove in una direzione diversa, di impegno multilaterale diretto. Un impegno che sarà condiviso anche dall’Italia. L’Italia dovrebbe inviare i suoi contingenti – in totale, sono previste 200 unità italiane – a marzo, secondo notizie riportate dalla stampa, ma non è ancora ben chiaro quali siano operativamente i compiti della neonata forza né cosa dovranno fare i militari italiani, se limitarsi a formare e addestrare le forze speciali saheliane o impegnarsi in operazioni frontali di contrasto alle attività dei gruppi jihadisti».

Sembra che la forza Takuba possa prevedere una maggiore esposizione in termini di lotta ai gruppi armati per i partner europei della Francia, ma non se ne conoscono tuttora i contorni. «In generale, la partecipazione italiana alla forza Takuba discende dalla necessità di contribuire alla securitizzazione della regione e ad arginare i flussi migratori, sia consolidando la presenza militare nell’area sia intervenendo su quelle che, nell’analisi dei decisori politici italiani ed europei, sono tra le cause di insicurezza all’origine dei fenomeni di migrazione. In questo senso, il Sahel è un’area sempre più prioritaria per Roma, che negli ultimi anni ha rafforzato la partnership con i governi regionali».

(Céline Camoin)

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