Reportage dal Lago Ciad, epicentro di una catastrofica crisi umanitaria

di AFRICA

Venti milioni di persone sconvolte dalle violenze jihadiste e dalla fame vivono attorno al grande lago (peraltro in rapido corso di desertificazione) al confine tra Nigeria, Niger, Camerun e Ciad. I racconti dell’orrore raccolti dal nostro reporter

Sabbia, sabbia e di nuovo sabbia. Il viaggio attraverso le piste sahariane che conducono da N’Djamena, la capitale del Ciad, a Bol, in riva al Lago Ciad, è un percorso obbligato per addentrarsi nel Sahel e conoscere una delle peggiori crisi umanitarie della nostra contemporaneità.

Due fattori – la guerra del terrore di Boko Haram e la desertificazione del lago – si sono uniti in un sodalizio di distruzione provocando una tragedia, nel bacino del lago, che oggi, stando ai dati dell’Ocha (l’Ufficio della Nazioni Unite per gli affari umanitari), ha causato 2,3 milioni di profughi, mentre sono 10 i milioni di persone che vivono nel bisogno e 500.000 i bambini che soffrono di malnutrizione. La superficie del Lago Ciad si è ridotta del 90% rispetto agli anni Sessanta e la guerra dei jihadisti di Abubakar Shekau ha fatto di questa terra un fortilizio del terrore. Quattro i Paesi toccati: Nigeria, Niger, Camerun e Ciad. Ed è in quest’ultimo che la crisi si esibisce in tutta la sua spietatezza.

Nello Stato di Idriss Déby, 183° Paese su 187 nell’Indice di sviluppo umano, dove l’analfabetismo va oltre il 50%, la speranza di vita supera a fatica i 53 anni, il tasso di mortalità infantile è tra i più alti del pianeta e l’economia è in crisi a causa del crollo del prezzo del greggio, il jihadismo e l’avanzata del Sahara stanno falcidiando la popolazione.

TRAGEDIE IGNORATE

Oltre otto ore di fuoristrada, traversando la fascia meridionale del deserto. Pochi arbusti secchi e una canicola inclemente. Tutto è arso, solo sporadiche frustate di vento interrompono un silenzio sepolcrale. Piccoli villaggi di capanne e case di terra vengono lasciati alle spalle e gli unici uomini che si incontrano, avvolti in jalabiya e turbante, sembrano aver cucita addosso la distruzione che sta travolgendo la loro terra. La vita in quest’area è sotto sfratto del Sahara, e lo si percepisce ancor meglio arrivati a Bol, il principale centro urbano rivierasco, cioè una strada di terra sabbiosa: da un lato, baracche che vendono pochi generi alimentari e acqua minerale a peso d’oro, dall’altro, il palazzo del governatore, il vecchio arco coloniale che ai primi del Novecento serviva da portale del mercato centrale, la moschea e la casa dell’imam. Poco più avanti, l’ospedale. Ed è addentrandosi nel nosocomio che la crisi incomincia a manifestarsi con tutta la sua ferocia.

«Il mondo si è dimenticato di questa parte del pianeta. Le telecamere informano su quello che avviene in Siria o in Yemen, ma di quello che sta succedendo qua, no. Non ci sono media e la gente muore e si consuma nell’oblio globale». A parlare, affranto dalla disperazione e dalla rabbia, è il medico Youssouf Saleh, che prosegue: «Qui manca tutto, questo è l’unico ospedale della regione e siamo solamente tre medici: vi rendete conto di cosa significhi essere in tre a dover far fronte a tutti i problemi di salute di un’intera regione? La gente muore di aids, di malnutrizione o per problemi respiratori e intestinali. È una situazione disperata, per questo preghiamo i governi europei e le ong di venire quaggiù a osservare ciò che sta avvenendo. Se non interviene qualcuno il più in fretta possibile, qui sarà una catastrofe».

STORIE TERRIFICANTI

Pazienti giacciono dappertutto: nelle camerate affollate e nei corridoi, alcuni in cortile e altri per terra tra la polvere e la sabbia. I letti sono tutti occupati, il caldo è insopportabile e anche gli strumenti basilari per far fronte all’emergenza non ci sono. Una donna assiste la figlia divorata dalla malattia facendole aria con un ventaglio di paglia; due fratelli, Mbokoiy e Chari Aumi, torturati dai soldati ciadiani per una settimana perché sospetti terroristi, sono distesi per terra tra le mosche. Chari, il più grande, ha le braccia in necrosi; Mbokoiy al posto del braccio ha un moncherino infetto, avvolto da uno sciame di mosche e di larve.

E poi c’è Ousman Abakar, 11 anni, che è in coma a causa della meningite e ad assisterlo, in silenzio, è l’anziano padre. Da quando, nel 2014, la regione è divenuta uno dei campi di battaglia di Boko Haram, nuovi problemi, fino a quel momento sconosciuti, hanno travolto la popolazione. «Gli stupri, i sequestri di bambini e i traumi psicologici sono drammi quotidiani – riferisce il chirurgo Mahmat Hassan –. Pochi giorni fa abbiamo ricoverato una bambina che ha visto sgozzato suo padre davanti ai suoi occhi. Poi è stata stuprata dai miliziani islamisti e ha contratto l’Hiv. Ha ingerito un chiodo di 12 centimetri per suicidarsi. L’ho operata e adesso è sotto trattamento. Questa è la nostra quotidianità. Vi è chiaro?».

NERVI TESI

È una quotidianità ritmata dal supplizio e dalla paura. L’assenza di tutto e l’eterna fobia di un attacco terroristico, come un metronomo di sofferenza scandiscono la vita nella città di Bol. Le poche vie del paese rivierasco sono pattugliate dai comitati di autodifesa, gruppi di cittadini volontari che insieme ad alcuni uomini dell’esercito ciadiano, presidiano gli ingressi alla città. Alcune donne appena sbarcate da una piroga trasportano delle borse e dei recipienti colmi di piccoli pesci per venderli al mercato. Ecco che immediatamente vengono fermate e perquisite dalle vigilantes. Tutte le ambulanti vengono fatte disporre in fila e una ad una vengono controllate e le loro borse svuotate.

Una giovane ha con sé una bottiglia di plasticate contenente del latte, ecco che viene obbligata a berlo davanti agli occhi delle addette alla sicurezza. «Non possiamo trascurare nessun dettaglio. All’interno delle bottiglie potrebbe essere nascosto del veleno o del liquido per compiere delle stragi, Boko Haram non si fa scrupoli di nessun tipo e noi non possiamo abbassare la guardia». A parlare è Zara Adoim, a capo di una delle pattuglie dei Comitati di Vigilanza, e la donna poi prosegue dicendo: «Noi sappiamo molto bene che ogni momento che trascorriamo ad un check point può essere l’ultimo. Se dovesse arrivare un kamikaze, la prima cosa che farebbe vedendoci, sarebbe quella di farsi esplodere. Ma se noi non siamo disposti a sacrificarci per la nostra gente allora significa arrendersi al terrore e consegnare questa terra a Boko Haram. E questo noi non lo vogliamo».

PICCOLA KAMIKAZE

Il gruppo jihadista nigeriano che è dilagato pure in Camerun, Niger e Ciad appunto, compie stragi anche attraverso l’impiego di donne e bambine kamikaze infiltrandole nei mercati. E vittima di un’azione suicida di questo tipo è stata la piccola Celou Haladji di soli 11 anni. La ragazza oggi vive nella tendopoli di Kurfa insieme alla madre. Una plaga di sabbia e capanne, è questo il campo profughi dove vive la ragazzina che trascorre le sue giornate in una piccola tenda costruita con rami e frasche.

A raccontare la storia è la madre della ragazza: «Fu io a mandare mia figlia al mercato a comprare un po’ di riso il giorno che ci fu l’attentato. Mi avvisarono che c’erano stati dei morti e che mia figlia era all’ospedale. Quando mi portarono da lei scoprì che aveva perso una gamba». La bambina oggi vive aggrappata a delle grucce e senza alcuna possibilità e prospettiva, neppure di andare a scuola o di giocare con altri bambini. «Io trascorro le giornate con il senso di colpa di aver mandato mia figlia al mercato il giorno che c’è stato l’incidente – confida la mamma di Celou Haladji, che aggiunge – Inoltre non abbiamo niente da mangiare, qua non c’è più nulla, la guerra e il deserto ci stanno portando via tutto».

RIDOTTI ALLA FAME

I danni causati dalla desertificazione sono evidenti, ed emergono immediatamente nei racconti dei profughi che spiegano come oggi ci sia solo sabbia e rammentano invece un passato fatto di campi, bestiame e reti indiamantate dalle scaglie dei pesci. È un passato perduto per sempre, scrutabile solo setacciando i ricordi dei rifugiati. Il presente è invece una dura realtà di privazione: il cibo è sempre meno e l’acqua che bevono raccontano essere quella del lago che però confidano provoca dolori e malattie. E uno dei posti dove maggiormente si possono vedere i danni provocati dall’avanzata del Sahara è l’isola di Yiga.

Ore di navigazione in piroga prima di sbarcare su quella che è una delle più grandi isole del lago Ciad e una volta arrivati è il boulama, il capovillaggio, Hotoye Dougoumi a spiegare lo stato attuale delle cose: «Immaginate: un tempo qui c’erano animali che si abbeveravano, pescatori che tornavano con reti colme di pesce e la terra dava anche dei frutti. Poi è iniziata la crisi e oggi, a causa della desertificazione e della guerra del terrore, siamo ridotti alla fame. Qualcuno deve intervenire quanto prima, abbiamo bisogno di aiuto, ormai il tempo dell’attesa è finito, la catastrofe è già iniziata».

(di Daniele Bellocchio – foto di Marco Gualazzini)

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