Nigeria: Makoko, lo slum liquido

di AFRICA

Ai margini della capitale economica della Nigeria, decine di migliaia di persone vivono in baracche di legno che galleggiano in una laguna putrida. In questo “mondo fluido” – che le autorità vorrebbero sopprimere – gli abitanti hanno ideato un formidabile sistema per non affogare.

Mike Davis, esperto di slum, scrive: «Una baraccopoli di Buenos Aires ha il peggior feng shui del mondo: è costruita in una zona alluvionale dove un tempo c’erano un lago morto, una discarica di materiali tossici e un cimitero». Makoko, sub-città informale di Lagos, Nigeria, si guadagna il secondo premio, non avendo neppure un terreno solido su cui espandersi: cresce su esili palafitte direttamente dall’acqua puzzolente delle lagune che danno il nome alla metropoli, là dove, negli anni Settanta, incontravo i pirati che infestavano il porto e venivo forzatamente condotto, assieme alla popolazione locale, ad assistere alle esecuzioni pubbliche dei ladri.

Pescatori di sabbia

Oggi le acque sono più calme e il benessere pare dilagare in Nigeria. Ma non a Makoko. Makoko deriva da villaggi di pescatori seminomadi egun che un centinaio di anni fa traevano sostentamento dal mare. Alcuni giovani lo fanno ancora, ma non si tratta più di pesce da affumicare, ormai sostituito da sgombri congelati importati dall’Olanda che i venditori coprono di sale per ritardarne la marcescenza. Per i ragazzini di Makoko il mare produce terra. «Un secchio, una vita – dice Ojo facendosi una canna (non da pesca) –. Ci chiamiamo “dragatori”. Piantiamo una scala sul fondo, e scendiamo con il nostro secchio. Sott’acqua, sì». Ojo e i suoi compagni risalgono dall’immersione con un carico di sabbia che rovesciano in un’imbarcazione che rifornirà i costruttori edili delle periferie di Lagos. Ojo significa “parto difficile”: non è che la vita sia proprio facile.

In realtà, Makoko è un nome collettivo. Si tratta di sei villaggi (o quartieri) distinti: I primi quattro insediamenti sono impropriamente detti “galleggianti”, gli ultimi due si trovano sulla terraferma e costituiscono il trampolino di lancio per la visita a Makoko, pubblicizzata come “la Venezia d’Africa” dall’abominevole “turismo della miseria” tanto di moda. A parte il fatto che lo stesso nome viene attribuito a Djenné (Mali), Lamu (Kenya) o Ganvié (Benin), lo scenario è differente – puzza di laguna marcia a parte.

La zona costiera attorno a Lagos era nota come “la tomba dell’uomo bianco” per via del clima umido (i vestiti marciscono negli armadi) e della relativa malaria (“paludismo”). Il gin&tonic è nato qui: per obbligo contrattuale, i funzionari britannici dovevano ingoiare giornalmente due pilloloni di chinino sciolti in acqua (vedi la composizione della tonic water). Il gin serviva a cancellare l’amaro e ad arrivare al giorno dopo.

A rischio sfratto

La stessa precarietà del dì per dì, ma con minor gusto, vivono gli abitanti di Makoko: oggi l’area di costa sotto le palafitte che sorreggono baracche, botteghe policrome, chiese improvvisate, negozi di riparazione elettronica, tutta quell’area malsana è divenuta appetibile per gli speculatori edilizi di una Lagos ultramoderna che ha un giro d’affari superiore a quello dell’intero Kenya e che prevede, in pochi decenni – dato il trend attuale che vede duemila nuovi arrivati al giorno – di ospitare 40 milioni di abitanti. Messi dove? Gli urbanisti reclamano terra anche dove non è visibile, come a Makoko, oggetto di ripetuti tentativi di evacuazione forzata e distruzione.

È un film già visto in tutti gli slum del mondo, come successe a Banana Island, dalla parte opposta della laguna, a un chilometro di distanza da Makoko. Secondo Forbes.com, sull’isola artificiale un appartamento costa 2 milioni di dollari e il terreno reclamato al mare per una villetta può arrivare ai sei.

Stregoni sull’acqua

Makoko è condannata dagli urbanisti, in quanto grande affare e perfetto incubo per chi governa. Il villaggio palafitticolo è in piena vista dal Third Minland Bridge, il più trafficato ponte di Lagos. Un imbarazzo. Per darsi arie di metropoli ultramoderna e non spaventare gli investitori, occorre costruire una narrativa sufficiente a giustificare l’intervento di evacuazione e abbattimento da parte delle motoseghe governative: orrori ambientali, promiscuità, miseria, droga, delinquenza, malattia. In realtà, un abitante di Makoko ripete serenamente dalla piroga il motto locale: «Qui si trova di tutto. Tranne una sepoltura». L’umorismo africano salverà il mondo.

La struttura di Makoko è a geometria variabile. Le persone che vi abitano vivono, letteralmente, “galleggiando”: le piroghe, più o meno grandi e ammodernate, sono la vera città, assai più delle baracche su palafitte. La loro densità provoca ingorghi simili a quelli da incubo che si vivono nel traffico urbano di Lagos. Su di esse si svolge la vita quotidiana e qualcosa di più. Si vedono passare chiese sull’acqua, mentre Medici Senza Frontiere ha costruito un ospedale galleggiante, abbandonato dopo un anno in quanto le genti di Makoko preferirono continuare a servirsi di stregoni ammanicati con orisha (spiriti yoruba) e vodun (entità fon).

Tre ipotesi

A Makoko vivono dai 100 ai 250.000 abitanti, nessuno pare saperlo. Per loro e con loro, l’organizzazione Serac (Social and Economic Action Rights Centre), un gruppo di assistenza legale per le comunità minacciate di dislocazione forzata in Nigeria, ha messo a punto un “piano di rigenerazione per Makoko”. Il nuovo governatore di Lagos, Akinwunmi Ambode, pare essere interessato a venire a patti con la comunità.

Ci sono tre opzioni, per il futuro di Makoko. La prima è di essere rasa al suolo (per meglio dire, affondata) e reclamata al mare (stile Paesi Bassi), come avvenuto per Bar Beach, nove chilometri quadri di oceano trasformati in quella che è destinata a diventare una mini-città residenziale e commerciale chiamata Eko Atlantic, la “Manhattan dell’Africa occidentale”. Facile e remunerativo, ma non per gli abitanti di Makoko. La seconda opzione vede un governo meno ossessionato dalla demolizione e più interessato alla fornitura di infrastrutture e servizi, in modo da favorire uno sviluppo autonomo e graduale della comunità. Improbabile. La terza possibilità è intermedia: implementare il piano di rigenerazione proposto, che appare come un compromesso di collaborazione tra i residenti, i gruppi della società civile e il governo.

Modello per il futuro

Come rivendica Robert Neuwirth, studioso di slum: «Prima di darci alla retorica e alla pianificazione distruttiva, dobbiamo capire cosa c’è a Makoko. Gli affumicatori di pesce e la loro rete di pesca, importazione e lavorazione; l’attività edilizia per le baracche; i carpentieri che costruiscono barche; l’affare che porta argilla e laterite ai cantieri di recupero terra. Makoko è una vera comunità, costruita da chi ci vive. Ha valore per loro, e per Lagos nel suo insieme». L’economia informale, una sorta di palafitta che sorregge la resilienza degli africani, non è attaccabile dai bulldozer, così come gli ideali, giusti o sbagliati che siano, non possono essere bombardati.

Se sopravvivrà, la nuova Makoko diventerà forse uno stile di vita obbligato. Le città del mondo sono spesso collocate in quelle che i geografi chiamano Zone costiere a bassa elevazione, o Low Elevation Coast Zones (Lecz). Tali zone rappresentano il 2% delle terre emerse, ma ospitano il 10% della popolazione mondiale, che cresce a un tasso superiore rispetto a quello delle altre aree. Non parliamo di Lima, Lagos o Dacca. Roma, Los Angeles, Londra, Tokyo e New York sono trappole di morte in piena Lecz, se consideriamo il probabile sollevamento del livello oceanico dovuto all’innalzamento termico planetario. Gli slum come Makoko, in questo senso, sono un adattamento all’ambiente. Sono più flessibili e difficili da erodere, anche se più rapidamente distruggibili. Chi li abita ha impensabili chiavi per il futuro: perlomeno è preparato a camminare sull’acqua.

(testo di Alberto Salza – foto di Petrut Calinescu / Panos Pictures / Luz)

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