Madagascar: la festa “del ritorno dei morti”

di AFRICA

Sull’altopiano malgascio le salme dei defunti vengono riesumate dalle tombe e riportate alla luce per un giorno di festa che, tra danze scatenate e fiumi di rum, rende omaggio al caro estinto.

Morire, in Madagascar, è un affare serio. Secondo la cosmogonia della religione tradizionale, rigidamente monoteista ma incentrata sul culto degli antenati, quando un uomo muore, non importa come abbia vissuto, ascende al cielo e diventa il tramite tra la sfera divina e il mondo dei viventi. In altre parole, un messaggero a cui tocca la responsabilità di fare da ambasciatore dell’intera famiglia presso Dio o chi per lui.

Messaggi per l’aldilà

Trattandosi di un ambasciatore e non di una divinità, ed essendo il culto degli antenati malgascio piuttosto pragmatico, i messaggi non possono essergli trasmessi in forma telepatica tramite preghiera o invocazione, bensì vanno consegnati di persona. Così, nella regione montuosa del Plateau, a sud della capitale Antananarivo, esiste la tradizione di celebrare fra luglio e settembre la Famadihana (si pronuncia famadiin, letteralmente “il rovesciamento delle ossa”), conosciuta anche con il nome di “Festa del Ritorno” o “Secondo Funerale”. E a tornare, per l’appunto, sono i morti, riesumati dalle loro tombe secondo un complesso calendario preparato dagli astrologi o mpanandro (che sono anche contadini, guaritori e paramedici deputati a eseguire le circoncisioni), invitati dalla famiglia allargata a prendere parte, per un solo giorno, a una gioiosa festa danzante in loro onore.

La Famadihana è per tutti i membri della famiglia un’occasione per rivedere i propri defunti, e soprattutto per affidare loro, sotto forma di bigliettini infilati nelle pieghe delle bende che avvolgono le spoglie mortali, le proprie preghiere a Dio, chiunque egli sia (oltre a seguire la religione tradizionale, il quaranta per cento dei malgasci sono anche cristiani di varie denominazioni).

Spese folli

La cerimonia ha inizio di solito nel primo pomeriggio, dopo un pasto collettivo a base di riso e cotenna di maiale bollita al quale (come ai banchetti di matrimonio in certe regioni d’Italia) si invitano quanti più parenti e conoscenti possibile, talvolta indebitandosi fino alla soglia della bancarotta. Riempito lo stomaco, tutti i membri della famiglia vestiti a festa si avviano in processione verso la tomba del defunto, per il quale è giunto il momento di tornare sulla terra. Tale circostanza propizia, che secondo la tradizione dipende dalla congiunzione degli astri, si verifica più o meno ogni quattro-sette anni.

Giunti alla tomba, che nella maggior parte dei casi è un piccolo mausoleo, un membro anziano della famiglia si occupa di aprire la pesante porta in cemento. Quindi i parenti entrano uno dopo l’altro a recuperare le salme dei loro cari, che vengono sepolte senza bara, avvolte in strati di raso e cotone pregiato e col nome scritto sopra a penna. Deposti i corpi sull’erba, cominciano le danze, scandite dalla musica di un’orchestrina assoldata per l’occasione (molto altro danaro speso) nonché da abbondanti libagioni di birra, vino e distillati locali, che alimentano le lacrime quanto la gioia.

Clima festoso

La Famadihana è, in effetti, una cerimonia lieta, nella quale il dolore per la perdita di un congiunto lascia spazio all’euforia di poterlo stringere nuovamente fra le braccia, anche se solo per qualche ora. Piangere, anzi, non è considerato opportuno né elegante, e chi non riesce a trattenersi si allontana con discrezione finché non gli è passata, per non rovinare l’atmosfera.

Dopo le danze ci si siede per terra attorno alle salme. Uomini e donne, tutti un po’ sbronzi, vi spruzzano sopra profumi che costano un occhio della testa, rassettano i sudari, sostituiscono con un bel drappo di seta bianca lo strato di tessuto più esterno che è marcito (quest’ultimo se lo prendono, in piccoli pezzi, le donne che non riescono a restare incinte: alcune lo mettono sotto il materasso, altre lo mangiano, per un effetto più sicuro), gli anziani raccontano ai piccoli le gesta di quello o di quest’altro avo. Si comunicano al defunto le novità della famiglia, il che prende un bel po’ di tempo, visto che dall’ultima volta che, per così dire, si sono visti sono trascorsi non meno di quattro anni.

Riunioni di famiglia

Il modo malgascio di concepire gli spiriti è strano: a quanto sembra, nonostante la loro natura hanno capacità limitate di cognizione riguardo a ciò che accade nel mondo dei vivi. Tuttavia, come se l’impedimento a vedere il mondo non precludesse la possibilità di influenzarne gli eventi, i vivi chiedono loro la benedizione, un pizzico di buona fortuna, l’aiutino soprannaturale per avere salute, lavoro, soldi, amore e fertilità. Se la famiglia è cattolica, non è raro che alla cerimonia sia presente il prete. In tal caso gli astanti si trattengono quanto possono dal dialogare coi propri antenati (è superstizione), ma il prete a sua volta evita di citare la Genesi quando, al capitolo tre, ammonisce: «Ritornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai». Come mi disse un giorno un mpanandro: «Non è dalla terra che veniamo, come è scritto nella Bibbia, ma da questi corpi: a loro dobbiamo tutto».

In quelle circostanze, la cerimonia purgata della componente esoterica rappresenta una riunione di famiglia, che rafforza i legami fra i componenti sparsi fra questo e l’altro mondo: un po’ come un pranzo di Natale, con l’aggiunta di molti posti vuoti a tavola.

Una ruota che gira

Il rito della Famadihana diventa sempre più raro, a causa della forte opposizione di alcune correnti religiose (in particolare i protestanti) ma soprattutto per motivi economici: finanziare una festa per trecento persone con cibo, alcol, musica, metri di stoffe preziose, unguenti rari e tutti gli annessi e connessi, in uno dei Paesi più poveri del pianeta, semplicemente costa troppo. E però organizzarla, quando le stelle dicono che è arrivato il momento, è d’obbligo, almeno fin quando le ossa del defunto non si siano decomposte completamente (a quel punto, fatto cenere, perde la sua capacità di comunicare e comprendere, e dunque viene meno la necessità di una festa in suo onore).

Nessun malgascio concepirebbe di poter avere un tenore di vita superiore a quello dei suoi antenati: pur di riservare a questi ultimi il comfort a cui hanno diritto, ci si indebita fino al collo per costruire un mausoleo principesco, continuando, da vivi, ad abitare in una stamberga. Più che una convenzione sociale è la garanzia che, quando sarà il vostro turno di morire, nessuno vi ficcherà in una tomba da quattro soldi dove resterete per l’eternità, o quasi.

(testo e foto di Sergio Ramazzotti/Parallelozero)

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