Il villaggio che aspetta il ritorno di Silvia

di Pier Maria Mazzola
Silvia Romano - Chakama

Sono passati quindici mesi dalla scomparsa di Silvia Romano, la volontaria sequestrata in Kenya da criminali comuni e oggi forse in Somalia, in mano agli Shabaab. Angelo Ravasi è appena tornato dal villaggio di Silvia. Con qualche segno di speranza.

Chakama è un villaggio sonnacchioso, forse perché è festa. Poche case intorno alla pista di terra rossa che spacca a metà l’abitato. Davanti alla casa dove abitava Silvia Romano stazionano tre-quattro ragazzotti a cavallo dei loro moto-taxi in attesa di clienti. Sul patio, invece, un nugolo di bambini gioca indisturbato. Oggi in Kenya è un giorno di festa. Tutti gli uffici e le attività sono ferme per consentire alla popolazione di partecipare ai funerali del secondo presidente del Kenya, Daniel arap Moi, o per poterli vedere alla televisione.

A Chakama non ci sono televisori e allora la vita continua come tutti i giorni, nel ritmo tipico di queste parti, pole-pole, cioè “piano piano” nella lingua swahili. Chakama è un villaggio a 80 chilometri da Malindi – la città del turismo e delle vacanze –: qui il 20 novembre del 2018, intorno alle 20, è stata rapita la volontaria italiana. Da allora – sono passati 15 mesi – di lei si sa molto poco. Secondo le autorità italiane è «viva» e si «sta facendo di tutto per riportarla a casa» e sarebbe in Somalia in mano ai terroristi di al-Shabaab. Appena scattato l’allarme del rapimento di Silvia tutti hanno pensato a un atto di terrorismo. E invece, a rapire Silvia sono stati criminali comuni, una banda composta da otto persone, tre delle quali sono state arrestate.

Per arrivare a Chakama partendo da Malindi, si prende la strada dei safari, quella che porta al parco dello Tsavo-Est, una delle mete più gettonate dai turisti che arrivano in Kenya. Una strada asfaltata, che solca la savana. Il paesaggio – come spesso accade in Kenya – è mozzafiato, soprattutto quando si scollina e davanti agli occhi ti appare tutta la bellezza della savana punteggiata da baobab e sul lato destro appare l’ansa del fiume Galana. In questo periodo è pieno d’acqua. Le piccole piogge quest’anno sono state abbondanti. Lungo la via dei safari, a un certo punto – occorre stare bene attenti ai cippi stradali che riportano le indicazioni –, si taglia a destra e si entra nella pista di terra rossa che porta a Chakama. Poco prima si passa da Langobaya, dove si trova il posto di polizia più vicino al luogo del rapimento. Appena lanciato l’allarme, una pattuglia in mezz’ora, nonostante il buio, è arrivata nel villaggio, ma troppo tardi. I rapitori con Silvia si erano già dileguati nella boscaglia bassa e attraverso il fiume. Pochi minuti. Dopo quel fiume, di Silvia si sono perse le tracce, o meglio la polizia del Kenya ha battuto palmo a palmo la zona ma, evidentemente, i rapitori sono riusciti a far perdere le loro tracce e poi vendere la volontaria italiana ai terroristi somali, oppure a consegnarla loro come da accordi. Forse. Ma, su questo punto, si sa poco.

La pista rossa arriva proprio nel centro del villaggio. Non è cambiato molto da quel giorno. La casa dove c’era, e c’è ancora, la stanzetta di Silvia, è stata ridipinta. Cancellata la scritta guest house. Ma tutto è ancora lì come allora. C’è, forse, un alone di tristezza in più. Per la scomparsa di Silvia, ma anche perché da quel 20 novembre 2018 tutte le attività di aiuto alla popolazione si sono fermate. Dove abitava la volontaria italiana è un po’ il centro del villaggio. Di fronte, una capanna con la scritta “pomposa” caffè e una che funge da ufficio di Mpesa, un sistema di trasferimento di denaro da cellulare a cellulare e di pagamento, una vera rivoluzione per la gente che vive nei villaggi sperduti della savana. Più a destra, tra due case, la via di fuga dei rapitori che in pochi minuti arriva al fiume. Un corso d’acqua che non ha ponti, si può attraversarlo in piroga o guadarlo quando il flusso di acqua è scarso. I rapitori hanno scelto con cura questo momento. La volontaria italiana, infatti, nei giorni che hanno preceduto il sequestro è stata seguita, ne hanno studiato le abitudini.

Ronald Kazungu, l’amico di Silvia, ricorda i momenti concitati del rapimento, gli spari e poi la fuga e, infine, l’allarme. E anche le percosse: lo hanno colpito con il calcio di un mitra alla testa. Ronald, 21 anni, studiava alle superiori. Un ragazzo di Chakama fortunato. Ne era fiero e sognava di fare il chirurgo. Con il rapimento di Silvia quel sogno rischia di rimanere solo un miraggio. La scuola non la frequenta più, non può permettersi la retta e come lui tanti altri bambini e giovani del villaggio. Le attività di Silvia si sono interrotte con la sua scomparsa. A fianco della vecchia guest house, una specie di ufficio, sembra essere il pozzo del villaggio. Davanti, infatti, tanti bidoncini di plastica gialla. Dentro, Albert Charo, il capovillaggio, che ci dice che ora tutto è fermo. Di aiuti non ne arrivano più. Quasi il tempo si fosse fermato a quel 20 novembre 2018. Albert non è di tante parole, preferisce tornare alle sue attività.

Arrivare sulle sponde del fiume non è difficile. Pochi minuti. E da lì si apre un orizzonte straordinario ma anche insondabile, pieno di incognite. Lì mi arrivano le parole del presidente della repubblica italiano, Sergio Mattarella, pronunciate durante l’inaugurazione di Padova capitale del volontariato, con le quali ha espresso «l’apprensione per le sorti di Silvia Romano rapita nel villaggio dove svolgeva la sua opera generosa di solidarietà e pace». Dalle sponde di quel fiume si prova a immaginare quale via abbia preso il commando di rapitori.

Guardando un poco a destra si immagina la cittadina di Garsen dove, si dice, sia passata Silvia, attraversando il Tana river e addentrandosi, poi, nella foresta di Boni verso il confine con la Somalia. Una foresta insidiosa, luogo prediletto di briganti, criminali e terroristi. Una vegetazione inestricabile. Ma la savana e la boscaglia sono vaste, poco abitate, nascondiglio perfetto. Facile eclissarsi, sfuggire alla polizia che insegue. Da quelle sponde ci si aggrappa alla speranza.

Sì, Silvia è viva e vogliamo continuare a credere, ne siamo convinti, che si stia facendo tutto il possibile per riportarla a casa. Un pensiero che si unisce al costante impegno delle istituzioni per ottenerne la liberazione. La savana è silenziosa, ma di un silenzio diverso, non quello che negli ultimi mesi ha sommerso questa tragica vicenda avvolgendola di un oblio inaccettabile e ingiustificato.

(Angelo Ravasi)

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