Gli effetti della pandemia in Sierra Leone

di claudia

di Mattia Rigodanza

Per il popolo sierraleonese la pandemia di Covid ha rappresentato il ritorno di un incubo che sembra non finire mai. Le restrizioni sanitarie imposte dal governo hanno messo in ginocchio il sistema agricolo che sorregge l’economia di un Paese fragile. Le comunità rurali hanno subito le conseguenze più pesanti della crisi sanitaria, ecco perché…

Come spesso accade, le crisi globali non fanno che amplificare delle problematiche già esistenti nella società. Secondo un rapporto Oxfam del gennaio 2022, “nei Paesi di tutto il mondo, le politiche economiche e la cultura politica e sociale stanno perpetuando la ricchezza e il potere di pochi privilegiati a detrimento della maggioranza dell’umanità e del pianeta. È il sistema economico che strutturalmente produce disuguaglianza, è il modo in cui le nostre economie e società attualmente funzionano. La pandemia da coronavirus si è abbattuta su un’Italia profondamente disuguale che rischia di veder peggiorato nel medio periodo il profilo delle disparità multidimensionali preesistenti”. Ecco, la storia della Sierra Leone sta tutta qua, in questa manciata di parole, se declinate a una realtà ancor più fragile rispetto a quella che viviamo noi quotidianamente. Questo è il racconto di un popolo di contadini che ogni giorno si sveglia con l’obiettivo di dar da mangiare ai propri figli, nulla più. Nessuna prospettiva se non quella di sopravvivere nonostante tutto.

Un Paese giovane

“Beautiful country, hard life”, sono queste le parole che i sierraleonesi usano per descrivere il loro Paese. Terra ostica e feroce, ma ricca di risorse naturali e proficue opportunità, tanto da essere soggetta a continue razzie e saccheggi. Terra che ha sofferto e che, dopo che le è stato portato via tutto, fatica a dare all’uomo ciò di cui lui ha più bisogno. Stretta tra l’oceano e la savana, tra la Guinea e la Liberia, la Sierra Leone è un giovane Stato che si è liberato dalla morsa del colonialismo britannico giusto in tempo per finire in pasto a un presente fatto di crisi politiche, epidemie e guerra civile. Secondo le ultime ricerche, occupa il nono posto nella classifica degli Stati più poveri del mondo, con un PIL pro capite di appena 500 USD l’anno, è tra le prime nazioni in quanto a mortalità infantile e l’aspettativa di vita si aggira intorno ai 50 anni di età. La sua economia non può fare affidamento su un’industria solida e all’avanguardia, né su un settore terziario rodato a sufficienza, ed è rappresentata per l’80 percento da un sistema agricolo minacciato da dinamiche padronali e criminose che coinvolgono dal più piccolo agro-dealer, ovvero colui che gestisce il commercio al dettaglio delle forniture agricole, alla più grande multinazionale, passando per l’apparato istituzionale.

Raggiunta l’indipendenza nel 1961, la Sierra Leone si ritrovò a fare i conti con una struttura agricola molto legata alla tradizione e non ancora pronta a fronteggiare le sfide che la globalizzazione stava per porle davanti. Se il colonialismo aveva dato il via a un lento processo di deperimento dell’intero ecosistema, attraverso l’estrazione di metalli preziosi e il conseguente inquinamento dei corsi d’acqua e dei terreni, il neocolonialismo si è fatto avanti sotto forma di deforestazione selvaggia, promossa da grandi compagnie estere, soprattutto cinesi e vietnamite, e supportata da istituzioni nazionali deboli e troppo spesso inclini a rendersi corruttibili.

Verso la fine degli ’80, la Sierra Leone è stata investita da una guerra civile che ha visto il coinvolgimento di Stati provenienti da ogni parte del mondo e che ha causato centinaia di migliaia di morti. I miliziani del RUF, Fronte Rivoluzionario Unito, dalle regioni del Sud hanno iniziato a occupare le provincie e le zone rurali di tutto il Paese, spinti da quel desiderio di combattere la corruzione e l’ingiustizia sociale che, in un primo momento, aveva accomunato gran parte della popolazione civile. Per poter portare avanti questa campagna e contrastare il governo, appoggiato dalle Nazioni Unite, il RUF ha dovuto chiedere aiuto a capi di Stato stranieri, in primis al libico Gheddafi, che hanno deciso di appoggiare i ribelli fornendo loro armamenti in cambio di pietre preziose. Da qui è nata l’esigenza di dare il via a una massiccia opera estrattiva che ha portato alla devastazione di larga parte dell’entroterra e alla schiavizzazione di adulti e bambini, impiegati, questi ultimi, per lo più nelle miniere di diamanti. Con il supporto di Libia e Liberia, il RUF è riuscito ad arrivare alle porte della capitale Freetown, trovando però la ferrea contrapposizione delle forze governative, appoggiate dal Regno Unito, dalla Nigeria e, in un secondo momento, anche dal Sud Africa. Dopo circa quindici anni di atroci ostilità, la guerra civile si è conclusa, lasciandosi alle spalle un popolo di mutilati, orfani, donne sole e reduci di guerra disoccupati.

A livello ecologico, la guerra ha prodotto una devastazione ancora oggi facilmente riscontrabile, mentre a livello economico e infrastrutturale, ha riportato il paese indietro di almeno cinquant’anni. Come se ciò non bastasse, dalla fine delle ostilità la Sierra Leone vive in un perenne stato di allerta, che si concretizza nell’impiego di una gran quantità di soldati intenti a pattugliare le città e le strade periferiche. Le spese militari, a cui tutt’ora è riservata un’alta percentuale del budget dello Stato, rappresentano una risorsa tolta all’agricoltura, alla piccola impresa e all’economia tutta.

Foto di CARL DE SOUZA / AFP

Ebola e Covid: una storia che si ripete

Liberatisi dalla morsa della guerra civile, gli abitanti della Sierra Leone sono piombati in una spirale di crisi sanitarie senza precedenti. Le pericolose condizioni sanitarie in cui verteva il paese al finire delle ostilità e la mancanza di un solido apparato ospedaliero hanno contribuito alla diffusione di infezioni e virus. L’epidemia di Ebola prima e la pandemia di Covid19 poi, hanno prodotto conseguenze che rischiano di compromettere irrimediabilmente tutto il già precario sistema socio-economico. Le restrizioni adottate dal governo per contenere i contagi hanno impedito per anni gli spostamenti da una città all’altra e persino dai villaggi ai mercati locali, mentre a livello di stretta manodopera, è stato vietato ogni genere di lavoro di gruppo. Le comunità rurali sono precipitate, così, in un profondo stato di isolamento, che si è presto tradotto in un’ulteriore difficoltà nell’accedere ai beni primari, come l’acqua e i semi, e in una concreta impossibilità di lavorare larghi spazi di terra per poter uscire da un sistema di mera sussistenza e aprirsi ai mercati extracomunitari.

Le diverse organizzazioni internazionali che negli ultimi anni hanno prestato servizio in Sierra Leone per aiutare a contrastare la crisi sanitaria si sono trovate davanti uno spettacolo drammatico. “Nonostante l’epidemia di Ebola abbia favorito il collaudo di protocolli che sono risultati molto utili nel contrastare la nuova ondata virucida di Covid, la Sierra Leone resta un paese che presenta delle serissime difficoltà nell’affrontare questo tipo di emergenze”, spiega il dottor Fabio Manenti, responsabile del settore progetti dell’organizzazione non governativa Medici con l’Africa CUAMM, presente nello Stato africano dal 2013 e attualmente incaricata di gestire la copertura vaccinale. “A conti fatti, possiamo dirci soddisfatti del lavoro di tracciamento e contenimento che è stato portato avanti in questi anni, sia durante l’Ebola che col Covid, ma esiste un problema strutturale che riguarda l’intero sistema sanitario, fragilissimo e incapace di applicare una reale attenzione nei confronti delle persone. Lo Stato non garantisce nessuna assistenza sanitaria e anche le cure di base sono a carico dei cittadini.

Il personale ospedaliero è quasi tutto volontario e non abbastanza qualificato per svolgere mansioni che vadano oltre l’assistenza infermieristica. Nonostante il nostro costante impegno nel sensibilizzare la popolazione e fornire i mezzi necessari ai vaccinatori, la campagna di immunizzazione vive un perenne stato di crisi, dovuto da tanti fattori diversi, come la mancanza di risorse adeguate, la presenza di una fascia di popolazione adulta totalmente priva di un percorso vaccinale tracciabile e l’impossibilità di raggiungere zone molto isolate. In molti villaggi la percezione del pericolo è stata molto bassa durante tutta l’emergenza sanitaria, forse perché il tasso di mortalità non ha mai eguagliato i livelli dell’Ebola, e dover raggiungere casa per casa tutte le persone che non hanno avvertito l’esigenza di vaccinarsi è stato impossibile e lo sarebbe stato per qualunque organizzazione”.

I numeri parlano chiaro: i pochi casi Covid riscontrati trovano ragione nel numero di test effettuati in tutto il paese, appena 373mila in due anni, circa quanti ne sono stati fatti in Italia ogni giorno lungo lo stesso periodo di tempo. Anche i dati sulla copertura vaccinale esprimono un panorama diametralmente opposto a quello che viviamo in Europa: solo il 24 percento della popolazione sierraleonese ha ricevuto la seconda dose. “C’è da registrare, però, un atteggiamento quantomeno propositivo da parte delle istituzioni, che hanno adottato misure ragionevoli e non eccessive, sventando la diffusione di un clima di terrore, come invece è successo in paesi come l’Uganda, dove le scuole sono rimaste chiuse per due anni”, dichiara Manenti. “Ci sono stati i giusti controlli sugli ingressi e solo a Freetown, dove la densità demografica raggiunge livelli critici e qualunque tipo di distanziamento sarebbe impensabile da applicare con successo, si è percepito un pericolo reale. Come Medici con l’Africa CUAMM abbiamo cercato di far mantenere al sistema di prevenzione e cura una certa credibilità, lavorando perché gli ospedali rimanessero sempre aperti, nonostante tutte le difficoltà del caso. Personalmente, credo che questa crisi sanitaria produrrà degli effetti indiretti che saranno impattanti per l’economia del paese più di quanto lo sia stato il virus in sé. Gli aiuti e i finanziamenti di cui la Sierra Leone ha sempre goduto si sono ridotti drasticamente e le organizzazioni inglesi di cooperazione internazionale, da sempre presenti sul territorio dopo il raggiungimento dell’indipendenza, hanno mollato la presa in modo sensibile, lasciando un grande vuoto nella società. Complici la crisi economica globale, la Brexit e la guerra in Ucraina, i prezzi sono aumentati in tutto il Paese, portando fame e povertà a livelli sempre più allarmanti. Se a tutto questo aggiungiamo le restrizioni sul lavoro agricolo collettivo e la chiusura delle miniere, credo che nei prossimi anni la popolazione sierraleonese si troverà ad affrontare sfide di cui è difficile prevedere l’entità”.

La deforestazione e il racket dei semi

Gli effetti della pandemia non direttamente riscontrabili e misurabili, come sono, ad esempio, i decessi, sono dovuti a una serie di meccanismi scatenatisi nel tentativo di contenere un virus altamente contagioso in un mondo estremamente globalizzato. Una concorrenza di dinamiche nazionali e transnazionali che vanno dal blocco delle economie e della circolazione di merci e persone, alle restrizioni interne ai singoli Stati.

Nel caso di paesi come la Sierra Leone, l’impossibilità di muoversi liberamente ha acuito lo stato di isolamento a cui le comunità rurali erano già soggette, date le grandi distanze e la mancanza di un apparato infrastrutturale adeguato. A causa delle restrizioni sanitarie, infatti, anche gli ufficiali governativi hanno dovuto interrompere le operazioni di monitoraggio e controllo delle dinamiche produttive e mercantili, lasciando i villaggi agricoli dell’entroterra alla mercè di speculatori e landlords, i grandi proprietari terrieri, e facilitando le grandi compagnie di deforestazione che, così, hanno potuto agire indisturbate aggirando le leggi che impongono un’adeguata e proporzionale opera di piantumazione a fronte dell’estrazione di legname.

“Durante la pandemia, il nostro lavoro è stato messo a dura prova dalle restrizioni che sono state imposte”, racconta Dauda Larry Koroma, operatore del Ministero dell’Agricoltura e della Silvicoltura che si occupa di intrattenere relazioni con piccoli e grandi contadini nel distretto di Karene, nel Nord del Paese. “Come ufficiali del Ministero abbiamo la responsabilità di controllare le attività agricole, monitorandole e supportandole in chiave sostenibile, e di proteggere l’ambiente, ma non potendo più spostarci da una comunità all’altra, abbiamo lasciato un vuoto in cui l’illegalità ha potuto prosperare.

Camminando per i 13 chiefdom, aree governate secondo un sistema tribale, che compongono il distretto di Karene, è facile riscontrare come la deforestazione sia una pratica fuori controllo. I grandi farmer, intesi come i detentori del sistema agricolo su larga scala che si contrappongono ai piccoli contadini locali, hanno abbattuto la foresta cosiddetta primaria, quella di vecchia crescita, così come quella secondaria, senza aspettare che potesse rifiorire dopo la consueta interruzione per motivi agricoli. Tutto questo per un mero motivo di tornaconto economico. La divisione forestale del Ministero è molto occupata a gestire questo fenomeno e a tutelare le foreste comunitarie, fondamentali per la sopravvivenza dei villaggi rurali, mentre il governo sta provando a potenziare il sistema legislativo con l’aiuto dei leader delle comunità.

Purtroppo, però, l’usanza di bruciare larga parte delle foreste per farne terreno da coltivare è considerata dai farmer un’attività primaria, radicata nella loro cultura agricola. Applicando, poi, sistemi di coltura su turnazione, si ottengono diverse aree che sistematicamente vengono bruciate a turno, compromettendo irrimediabilmente il benessere di tutta la regione. Negli ultimi due anni stiamo cercando di mettere in piedi un programma di riforestazione comunitaria, andando nelle singole contee e acquisendo pezzi di terra per poi ridarli alle comunità in buona salute, ma i risultati di questi progetti è difficile constatarli nel breve periodo. A questi problemi c’è da aggiungere anche quello della deforestazione massiva, che vede tra i principali attori protagonisti i raccoglitori di legname stranieri, soprattutto cinesi, che per raggiungere il tipo di legno che interessa loro sono disposti a distruggere intere aree di foresta di mangrovia, vitale per la sopravvivenza dell’ecosistema. Insomma, le sfide che ci troviamo ad affrontare sono tante”.

La deforestazione è una piaga che sembra insanabile, a meno che non si agisca elaborando un sistema di controllo capillare, cosa che fino ad ora è stata impossibile da attuare, soprattutto durante la pandemia. Questa pratica estrattiva si è già tradotta, per le piccole comunità rurali, nella sostanziale inaccessibilità all’acqua, risorsa strettamente connessa con la foresta, e ai semi, che in molte zone del paese rappresentano una vera e propria moneta di scambio. In più, la deforestazione e le pratiche agricole impattanti e non sostenibili hanno accelerato il processo di erosione genetica dei semi, ovvero la perdita del patrimonio genetico delle varietà botaniche. In questo modo è diminuita drasticamente la capacità di adattamento dei semi e il sistema agricolo è cresciuto in fragilità e in esposizione a parassiti, malattie e avversità climatiche. E’ per questo che preservare le biodiversità risulta fondamentale per aumentare il livello di sicurezza alimentare. “Quella dell’accesso ai semi è una tematica molto delicata per questo Paese”, spiega Koroma. “Il Ministero gestisce un centro studi scientifico incaricato di mantenere i semi in salute e di tutelarne la biodiversità, ma negli ultimi anni la situazione è peggiorata molto.

Le varietà sviluppate e certificate dal centro studi, dopo che hanno dato i loro frutti, non vengono ripiantate dai contadini. Il motivo è semplice: una volta il Ministero garantiva una certa fornitura di semi in ottima salute ai farmer e, allorché essi si riproducevano, ne chiedeva indietro una certa quantità per continuare a tutelarne la biodiversità e a garantire una equa distribuzione per le stagioni seguenti. Il problema è che per portare a termine questo procedimento bisogna monitorare il processo agricolo dall’inizio alla fine, cosa molto difficile da fare, soprattutto con le restrizioni anti Covid. Quindi, i farmer hanno cominciato a tenersi i semi senza ridare nulla indietro al Ministero e, così facendo, hanno facilitato il processo di erosione genetica e hanno immesso nel mercato semi non certificati. La dura verità è che i farmer preferiscono dare i semi alle comunità di piccoli contadini che ricevono, così, una materia prima in cattiva salute, poco produttiva, a fronte della restituzione di una percentuale del raccolto che arriva fino al 60 percento. In parole povere, i piccoli contadini sono vittime di un vero e proprio racket. Non hanno nessun potere contrattuale, dato che in molte comunità rurali esiste un sistema di exchange interno, molto simile al baratto, che limita enormemente il loro potere d’acquisto da e verso l’esterno. Cosa succede: il capo villaggio si reca dal grande farmer e chiede in prestito i semi per tutta la sua comunità, ma non potendolo pagare subito deve accettare condizioni che prevedono interessi da usura. Con il poco del raccolto che rimane ai contadini dopo il pagamento degli interessi, si riesce a mala pena a sfamare il villaggio. Così facendo, i villaggi sono condannati a mantenere un sistema di scambio che esclude loro da qualsiasi struttura di mercato”.

Nonostante oggi le restrizioni anti Covid non siano più in vigore, il sistema agricolo stenta a ripartire, fiaccato da mesi e mesi di inattività. Gli agro-dealer, che fungono da tramite tra i grandi produttori di materiali agricoli e i piccoli contadini, sono ancora in ginocchio, mortificati da un sistema economico allo sbando. “Questa pandemia ci ha messo in seria difficoltà”, dichiara Mark Saidu, agro-dealer della comunità di SandaLoko, nel distretto di Karene. “Già prima della crisi sanitaria per noi era un problema trovare uno spazio dove aprire un negozio che fosse accessibile ai contadini dei villaggi. Con le restrizioni e l’impossibilità di spostarsi da una comunità all’altra, le nostre attività si sono ridotte drasticamente e, così, anche i profitti. Essendo vietato anche il lavoro di gruppo nei campi collettivi e visto l’utilizzo di materiali obsoleti da parte dei contadini, si è potuto coltivare sempre meno, con la naturale conseguenza che le persone hanno avuto sempre meno bisogno di semi o fertilizzanti. Negli ultimi mesi ho dovuto buttare via chili e chili di materiale che stava marcendo nel mio magazzino. Anche ora che non ci sono più restrizioni sto registrando incassi bassissimi. Il lavoro arranca nel tornare a regime, i contadini producono sempre meno e le famiglie sono costrette a consumare sempre più cibo importato che, di conseguenza, è salito di prezzo. Oggi una sacca da 50 chili di riso importato dalla Cina costa 400mila leones, quasi quanto lo si paga in un qualunque supermercato europeo, un prezzo estremamente alto per queste zone, dove le famiglie sono molto numerose e i consumi di riso sono vertiginosi. A questo va aggiunto il fatto che il governo continua ad alzare le tasse sulle importazioni, giustificando gli aumenti dei prezzi con l’esigenza di far fronte alle spese militari. Dopo la guerra si è sempre investito molto nell’esercito, il numero dei soldati è aumentato sempre più e, con lui, anche la quantità di cibo che lo Stato deve fornire loro, sottraendolo alla popolazione civile”.

Covid e cambiamento climatico

Come abbiamo visto, il Coronavirus si è abbattuto su un Paese già molto fragile, sia dal punto di vista economico che sociale, alimentando ingiustizie e discriminazioni. Il passato difficile e travagliato di uno Stato che soffre un sistemico assoggettamento da parte di nazioni straniere, incide molto sulle sue capacità di affrontare le grandi sfide che il mondo contemporaneo gli pone davanti. E se la crisi pandemica ha inferto un duro colpo alla Sierra Leone, sarà il fenomeno globale strutturale ad essa strettamente collegato a minacciare la sua popolazione nei prossimi decenni. Stiamo parlando, ovviamente, della crisi ambientale e climatica, emergenza che le istituzioni sierraleonesi sembrano voler affrontare con grande consapevolezza.

“Ormai dovrebbe essere chiaro a tutti che la salvaguardia della salute e la protezione dell’ambiente sono due argomenti saldamente collegati”, dichiara Abdul Sannoh, responsabile del Dipartimento Sviluppo delle Nazioni Unite presso Freetown. “Il tasso di diffusione di molte delle attuali malattie è correlato allo stato di salute della biosfera e, nel nostro caso, delle foreste. Non solo, la distruzione degli habitat naturali provoca lo spostamento della fauna locale che minaccia, così, le aree rurali, vitali per l’economia della Sierra Leone. Per noi questo è molto chiaro, ma c’è bisogno di una drastica inversione di rotta a livello globale per contrastare l’emergenza che si sta abbattendo sulle nostre vite. I Paesi più poveri del mondo soffrono le scellerate politiche economiche promosse dalle società occidentali. Neanche i Paesi africani in via di sviluppo hanno aree industriali talmente grandi da essere capaci di esercitare una forza così impattante come fanno le grandi compagnie del “Nord del mondo” tramite la produzione massiva. E’ vero, noi abbiamo le risorse, ma non le capacità tecniche per sfruttarle in modo così aggressivo da distruggere il territorio. I nostri pescatori locali non impattano come le compagnie cinesi, che rastrellano aree marine immense ogni giorno, e quando i nostri agricoltori tagliano un albero non provocano lo stesso effetto che le aziende occidentali determinano abbattendo un’intera foresta. Noi abbiamo i minerali, i diamanti e l’oro, ma le macchine che servono per estrarli in quantità a tal punto ingenti da inquinare e devastare il corso dei fiumi e i loro sbocchi sul mare vengono dall’estero. Questi sono tutti motivi per cui le responsabilità della distruzione del nostro ecosistema andrebbe ripartita con gran parte del mondo”.

Dunque, uno degli strumenti più efficaci per arginare ondate virucide come quelle che hanno investito la Sierra Leone negli ultimi vent’anni, e i loro tragici effetti sul tessuto economico e sociale, sembra essere proprio un apparato legislativo e istituzionale in grado di limitare i danni all’ecosistema. “Bisogna dare la possibilità alle nazioni africane di reclamare le loro terre, gestirle in autonomia e mitigare, così, gli effetti del cambiamento climatico”, esclama Sannoh. “Abbiamo bisogno di governi solidi, governi che sappiano stringere patti alla pari con l’Occidente e che reclamino il denaro che l’Occidente ha accumulato nei decenni sfruttando le risorse africane. Com’è possibile che la Sierra Leone non abba i soldi sufficienti a sostenersi economicamente se il primo diamante in queste zone è stato scoperto nel 1906? Semplice, abbiamo svenduto il nostro territorio e le sue risorse al primo offerente, succubi di un ricatto impostoci con la forza. Inoltre, abbiamo bisogno di leggi forti e regole per la protezione dell’uomo e dell’ambiente. Ricordiamoci che la Sierra Leone è attualmente riconosciuto come il terzo Paese al mondo più vulnerabile ed esposto agli effetti del cambiamento climatico. Stiamo parlando di una vera e propria minaccia esistenziale e il Covid non è nulla rispetto a ciò che rischiamo si abbatta su di noi nel prossimo futuro”.

Nonostante il carattere drammatico di questa narrazione e nonostante l’80 percento delle foreste sierraleonesi sia ormai solo un ricordo, non tutto è perduto. Associazioni come PRIDO, che proprio in questi mesi sta promuovendo un progetto di agroforestazione insieme a Dévelo, un laboratorio milanese di cooperazione internazionale, svolgono un ruolo fondamentale per la ripartenza in chiave sostenibile di un’economia fatta di piccoli contadini e campi di pochi metri quadrati soggetti a estrema siccità durante la stagione secca e a improvvise inondazioni durante la stagione delle piogge. “Noi ci limitiamo a portare nei villaggi tecniche agricole che permettano agli abitanti di raggiungere un certo livello di sicurezza alimentare durante tutto l’anno, limitando l’impatto sull’ecosistema”, racconta Joe Musa, fondatore e presidente dell’organizzazione. “L’emergenza Covid ci ha costretti a rivedere le nostre attività, ma con l’aiuto dell’UNDP, l’Ufficio per lo Sviluppo delle Nazioni Unite, riusciamo ancora a finanziare il nostro lavoro. Il nostro obiettivo è quello di far uscire le comunità da una logica di sussistenza, condizione che la crisi sanitaria ha contribuito a confermare, per aprirsi ai mercati locali e nazionali. Qui tutto è da ricostruire: dal sistema di redistribuzione dei semi alle attrezzature, fino agli strumenti per accedere alle licenze utili a esportare i propri prodotti. Siamo ancora all’inizio di un lungo percorso, ma la Sierra Leone è uno Stato giovane, ha tempo per crescere in autonomia e consapevolezza”.

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