Ezio Bosso e la sua Africa

di claudia

Oggi, a due anni dalla scomparsa, ricordiamo Ezio Bosso, compositore, direttore d’orchestra e contrabbassista di fama mondiale, alla scoperta dei legami tra il celebre artista e il continente africano

di Federico Monica

L’aeroporto di Durban sembra ancora addormentato. È mattina presto, nei corridoi solo poche persone quasi spaesate; il mio lungo viaggio di ritorno sta per iniziare, appoggiato al vetro del terminal guardo il cielo che si rischiara dietro le colline verdissime. È un attimo: di colpo alle mie spalle risuona una melodia familiare, troppo familiare.

Ho come un senso di vertigine, mi volto con i brividi sulla pelle senza sapere cosa aspettarmi ma dietro di me non c’è nulla: una fredda sala d’attesa semideserta, sedie vuote e uno schermo piatto che trasmette pubblicità a ciclo continuo.

La musica ha lo strano potere di trasformare ogni cosa e anche i non luoghi dell’aeroporto sembrano illuminarsi di luce nuova mentre una fila di ricordi si affaccia alla mente riannodando fili invisibili fra Italia e Africa, piogge torrenziali e speranze, baraccopoli e teatri diroccati.

Quella melodia, finita per chissà quale gioco del destino nella pubblicità di una compagnia assicurativa sudafricana, si intitola “Rain, in your black eyes” ed è uno dei pezzi più famosi e potenti di Ezio Bosso.

La memoria inizia a correre. Avevo poco più di venticinque anni quando ho incontrato Ezio per la prima volta, lo avevano portato a Gualtieri Riccardo e Rita, amici di una vita con cui ci eravamo imbarcati in un’impresa meravigliosa e folle: riaprire l’antico teatro di quel piccolo paese sulle rive emiliane del Po, abbandonato da decenni e semidistrutto.

Avevano conosciuto Ezio per caso, non sapevano ancora che sarebbero diventati fra i suoi amici più stretti, ma avevano intuito che quel teatro e la nostra storia lo avrebbero rapito. Fu proprio così, tanto che negli anni il Teatro Sociale di Gualtieri diventò per Ezio Bosso una seconda casa in cui registrare album, fare concerti ma soprattutto rifugiarsi per vivere i ritmi lenti e i legami sinceri della pianura. All’epoca di quel primo incontro stavo scrivendo la mia tesi sulle città e le baraccopoli dell’Africa occidentale e per una strana coincidenza eravamo tornati in Italia da poco, io da Freetown, Ezio da una tournee in Sudafrica.

Non molti lo sanno ma alcuni suoi pezzi raccontano proprio le suggestioni di quel viaggio: African nights, ad esempio, o la famosa African skies, più nota con il titolo di I’m born child, entrambe pubblicate nell’album “The way of 1000 and 1 comet” uscito nel 2012.

A Johannesburg Ezio Bosso aveva avuto l’occasione di visitare alcune township, fu così che le lunghissime serate afose sotto i portici della piazza deserta si riempivano di discussioni sulle nostre afriche: città, culture, apartheid, esclusione sociale, informalità. Nelson Mandela non era più presidente da molti anni ma i suoi occhi velati eppure ancora così pungenti bastavano a mantenere accese le speranze di un futuro migliore. Proprio una di quelle sere mi confidò un suo sogno: tornare in Sudafrica e organizzare una serie di concerti in alcune township.

Erano gli anni in cui Banksy lasciava le sue tracce sui muri di fango nei sobborghi di Bamako, l’artista francese JR riempiva di giganteschi occhi i tetti delle case di Kibera o i muri delle favelas di Rio mentre Blu realizzava centinaia di graffiti nei barrios di Buenos Aires. Interventi di grande valore artistico che non mi hanno però mai convinto fino in fondo da un punto di vista etico e sociale: se possono contribuire ad “accendere i riflettori” su determinate realtà, restano pur sempre azioni di estranei, non partorite dalle comunità, che spesso una volta terminate lasciano le cose esattamente come prima, se non peggio.

Glielo dissi. Prima di parlare si versò l’ultimo bicchiere di lambrusco, poi serio mi rispose: “Sì è vero, il rischio c’è, ma la bellezza può e deve essere per tutti”.

Ci incontrammo ancora molte volte ma non ne parlammo più. Poi, soltanto pochi anni più tardi, questo e tanti altri sogni furono travolti dalla comparsa di una malattia che minò il suo fisico ma che non riuscì mai a spegnere la sua forza, la creatività, il coraggio, la voglia di lasciare un segno e di infondere speranza. Fino alla fine, il quattordici maggio di due anni fa.

La melodia si spegne troppo presto, il cielo del mattino si fa sempre più carico di nubi. Rain, pioggia, proprio come quelle che pochi giorni fa hanno devastato questa città e soprattutto le sue township, trascinando via case, strade e vite, aprendo enormi ferite di terra rossa nel verde rigoglioso della vegetazione. Tutto torna. La bellezza può e deve essere per tutti, e mentre un sorriso e una lacrima si mischiano nel riflesso del vetro mi chiedo cosa sarebbe successo se Ezio avesse concretizzato il sogno della sua rassegna di concerti.

Probabilmente nulla. O forse no, forse in un qualche angolo di Johannesburg e di Cape Town qualcuno conserverebbe ancora un ricordo lontano o una scintilla di emozione di quel giorno. Quel giorno in cui un musicista italiano era arrivato portando con sé un’orchestra sinfonica intera, con gli ottoni brillanti delle trombe, il legno levigato dei violoncelli, un pianoforte a coda trascinato nel fango e poi gli abiti da sera, le scarpe lucidate, proprio come se si fosse al teatro nazionale.

Qualcuno avrebbe riso, qualcun altro avrebbe pensato che quel bianco fosse un pazzo, qualcuno a occhi chiusi avrebbe forse sognato, o sorriso, o pianto. Chissà.

Ascoltatela Rain in your black eyes. Ognuno sente ciò che crede ma anche in quelle note e in quel ritmo che sembra addormentarsi per poi risvegliarsi fino a diventare travolgente penso ci sia tanto dell’Africa: l’immensità e le cose minuscole, i drammi infiniti e le gioie leggere, i sogni, la bellezza, la nostalgia, un tempo che sembra farsi circolare. Alzate il volume e ascoltatela ad occhi chiusi, fino in fondo. Dura più di dieci minuti ma vi assicuro che ne vale la pena.

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