Etiopia: il rito di iniziazione dei giovani Hamer che fa discutere

di AFRICA

Nella Valle dell’Omo, il popolo Hamer difende l’usanza della fustigazione delle donne che accompagna la cerimonia del Salto dei Tori. Uno spettacolo cruento che… attira migliaia di turisti.

Il Salto dei Tori da parte dei giovani (ukli bulà) è una delle cerimonie più significative per gli Hamer, una comunità della Valle dell’Omo in Etiopia. Si tratta dell’iniziazione maschile, tramite cui i ragazzi mostrano forza e coraggio saltando sul dorso di un numero variabile di bovidi in fila, da cui devono scendere e salire quattro volte senza cadere.

La pratica della taurocatapsia (“salto del toro”) è diffusa nel mondo a partire dall’età del bronzo (nella Creta minoica, in India tra i Tamil, in Anatolia tra gli Ittiti); ancora oggi è praticata nella Francia sudoccidentale. A quanto risulta dall’iconografia, i movimenti riflessi del toro forniscono al “danzatore” la spinta inerziale per eseguire le sue acrobazie. Uomo e animale diventano così un tutto unico dal punto di vista dinamico.

Eppure gli Hamer, dal Monte Buska dove praticavano l’agricoltura, sono divenuti pastori di bovini solo alla fine del XIX secolo, in quanto profughi ambientali ed economici. In tal modo si spiega la “nuova tradizione” (un ossimoro diffuso più di quanto si creda) del salto dei tori, a certificare il patto di sopravvivenza reciproca con gli animali.

Per gli autori di L’Omo: Viaggi di esplorazione nell’Africa Orientale, le popolazioni incontrate dalla spedizione Bottego nel 1896 rappresentavano il paradigma dello stereotipo europeo del selvaggio: «Abitanti di un paese sino a ora sconosciuto all’uomo bianco e alla maggior parte dei neri circostanti, si capisce come nel loro genere di vita siano tanto prossimi alle bestie… Queste tribù selvagge hanno tendenze detestabili e abitudini bestiali».

 

Lunghi preliminari

Tra gli Hamer, il rito del salto dei tori prevede una fase preliminare di molti giorni o addirittura mesi, in cui il giovane viene spogliato di tutti i beni, rasato a zero, nutrito con sorgo, latte di vacca e miele. Solo a quel punto gli viene dato l’armamentario per lo status di ukli (infante impuro, anche sessualmente): è il momento in cui annuncia la partecipazione alla cerimonia, un rito complesso che si protrae dall’alba al tramonto.

Durante la mattinata le donne si acconciano reciprocamente i capelli in sottili treccine che spalmeranno di burro, resina, argilla rossa e limatura di ferro. Intanto, in uno spiazzo libero, altre donne formano cerchi che si stringono e si allargano al suono di trombette metalliche. Corrono, si fermano, saltano; a ogni passo i campanelli da caviglia richiamano l’attenzione ai festeggiamenti.

Le danze continueranno per tutta la giornata, con l’eccezione del pranzo: un impasto di farina di sorgo e burro accompagnato da birra locale. Espletati altri riti propiziatori, il ragazzo, circondato dai maz (giovani che hanno già superato la prova e che vanno considerati come “padrini”), si avvia verso il luogo sacro della cerimonia, la quale si apre con il rito della fustigazione delle donne. Tra polvere e grida di incitamento, le donne parenti dell’iniziando, con un braccio alzato, chiedono di essere frustate mentre ballano e saltano di fronte ai maz che, se non sono disposti a colpirle, vengono strattonati e derisi. Terminate le fustigazioni, le donne tornano a danzare tra lo stridore delle trombette e il tintinnio dei campanelli.

Un uomo completo

Poco dopo, mentre i maz tentano di tenere a bada una mandria di vacche, le donne ballano tutt’attorno: con grida e movimenti intendono disorientare le bestie. Alla fine, i maz riescono a immobilizzare un numero di buoi che può arrivare a 15 (il termine “toro” è deviante, dal momento che i pastori nomadi tengono pochi maschi nella mandria, castrando gli altri). I bovini, trattenuti per le corna e per la coda, vengono disposti in fila. Il ritmo delle danze aumenta, le trombette emettono suoni sempre più acuti, l’eccitazione cresce: il giovane, nudo e con una corda vegetale intorno al petto a simboleggiare l’infanzia da abbandonare, si appresta ad affrontare la prova. Dopo una breve rincorsa, egli salta sul primo toro (la sequenza ha nomi propri per ogni animale) e, in precario equilibrio, passa al successivo e così via, senza mai cadere, sino a completare la prova che dovrà ripetere per quattro volte consecutive.

Solo così l’esame potrà dirsi superato e il giovane diventerà un daala, un “uomo completo” con l’impegno di trovare una moglie entro un mese. Finché ciò non avverrà, il daala dovrà attenersi a una dieta rigorosa a base di latte, miele, sangue e carne, in una radicalizzazione dei prodotti pastorali a confronto della pristina agricoltura. La prescelta dal daala potrà diventare sua sposa solo dopo che il padre del ragazzo avrà ripagato con buoi, capre e almeno un kalashnikov la famiglia della ragazza. Se fallisce la prova, il ragazzo sarà la vergogna della famiglia: non potrà sposarsi e dovrà ripeterla l’anno successivo.

Donne e scudisci

L’ukli bulà è uno dei riti più controversi della cultura hamer. Quello che risulta sconcertante per occhi estranei (e poco attenti alla profondità delle tradizioni) è la centralità della fustigazione femminile. Nonostante le ferite lascino cicatrici indelebili, tra le donne nessuna si sottrae o emette un lamento. Ostentare i segni delle scudisciate è, infatti, indice di coraggio, integrità e attaccamento alla famiglia nonché segno di devozione e affetto per il ragazzo che sta per passare dall’adolescenza all’età adulta. Tale usanza, cruenta e dolorosa, assolve un’indispensabile funzione sociale. Le cicatrici e il dolore sopportati rappresentano per le donne una forma di credito verso il futuro maz di famiglia che, in caso di difficoltà, sarà tenuto a prendersene cura.

Attualmente, le autorità etiopi sono decise a porre fine a questa esibizione, considerata una pratica di violenza gratuita contro la dignità delle donne, in grado di svilire l’immagine di un Paese che si ritiene civile e moderno.

Il mondo degli Hamer, però, è sempre più simile a un ethnoshow. Il sadismo voyeuristico dei turisti è testimoniato dalle cifre raccolte dalla ricercatrice Matilde Cavalli dell’Università di Bologna: nel 2004, l’area di Turmi (dove si concentrano gli Hamer) ricevette 3876 turisti, nel 2007 16.548 e nel 2008, dopo alcuni servizi sulla fustigazione, si arrivò a 30.490. In tutta la regione, nel 2004 vi era solo un hotel a Jinka e un camping a Turmi; nel 2016 si è arrivati a 8 hotel, 9 lodge, 18 pensioni e 2 campeggi. Purtroppo, l’incontro tra Hamer e turisti non è una normale relazione sociale: assomiglia a uno scontro ineguale a scopo affaristico. Chi scrive rifiuta di fare fotografie: mentre un tempo venivo apprezzato dagli Hamer, oggi vengo trattato male poiché non porto denaro. Niente «You you! Money!».

Consenso informato?

In realtà, qui l’afflusso turistico è destinato a calare, così come le acque del fiume Omo, imbrigliato a monte dalla diga Gibe III (a partecipazione italiana), un progetto mai messo in appalto, con le popolazioni locali mai consultate e i gruppi ambientalisti esclusi a priori. Duecentomila persone sono già state “dislocate” a forza, per lasciare lo spazio a campi di cotone e trivellazioni petrolifere cinesi.

Agli Hamer è stato “consigliato” di tornare all’agricoltura, con buona pace del bestiame. Comunque vada la catastrofe ambientale, da tempo il governo di Addis Abeba (controllato dalle etnie dell’altopiano che da sempre considerano i popoli dell’Omo alla stregua di primitivi selvaggi) è favorevole all’abolizione delle fustigazioni cerimoniali tra gli Hamer; in questo è sostenuto dalle varie associazioni locali e internazionali che si battono per i diritti delle donne. Per ragioni diverse, però, non tutti sono d’accordo. Michael Ignatieff, una delle menti più acute del panorama degli intellettuali contemporanei, scrive: «La difesa dei diritti umani deve essere a priori dalla parte della vittima, e il test di legittimità è il consenso della vittima». Bisogna parlare con le donne hamer e ottenere il loro consenso informato per la mutazione del rituale: è con la barbarie che bisogna trattare; con chi altri, se no?

(di Alberto Salza )

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