I gerarchi etiopi salvati dall’Italia

di Enrico Casale
Bayeh e Tedla

di Mario Ghirardi

Notte del 25 maggio 1991, Addis Abeba, Etiopia. Il dittatore Menghistu è appena fuggito rocambolescamente all’estero per sottrarsi alla rivolta che ha condotto le truppe ribelli del Tplf, Fronte di liberazione del popolo tigrai, guidate da Meles Zenawi, alla conquista della capitale. Cinque tra i più alti esponenti in grado del suo governo trovano rifugio nell’ambasciata italiana. La notte dopo vi entra anche Berhanu Bayeh, ideologo del regime ed ex ministro degli Esteri, che incredibilmente riesce a farsi aprire le porte dichiarando alle guardie di avere un falso appuntamento con l’ambasciatore Angeletti. Quest’ultimo la sera del 27 fa andare addirittura a prelevare con la propria auto di rappresentanza altri pezzi da novanta del regime, Tesfaye Gebrekidan, divenuto nel frattempo presidente provvisorio del Paese, e Addis Tedla, capo di stato maggiore. Come se non bastasse, trova rifugio nel compound italiano anche l’ambasciatore della Corea del Nord con il suo seguito.

La tensione è altissima. Uno dei rifugiati si suicida con un colpo di pistola, altri quattro decidono di consegnarsi al nuovo regime finendo subito in carcere, mentre Bayeh, Tedla e Gebrekidan chiedono una protezione diplomatica che viene immediatamente accordata. I primi due, a 28 anni da quel giorno di maggio 1991, sono ancora ospiti dell’ambasciata. Sono loro «i noti ospiti», epiteto con cui li menziona il volume dal titolo omonimo scritto dall’ex ambasciatore in Etiopia Giuseppe Mistretta e dal suo collega diplomatico Giuliano Fragnito, editore Greco & Greco, da lui stesso presentato al Circolo dei Lettori di Torino in una serata organizzata dal Csa, Centro di studi africani del Piemonte, con Emanuele Russo, presidente nazionale di Amnesty International, e Luca Barana, ricercatore.

La vicenda, che ha dell’incredibile, con rari precedenti, ed è ciononostante quasi sconosciuta al grande pubblico, trova i suoi riscontri d’attualità nella vicenda di Julien Assange, accettato e poi espulso dall’ambasciata ecuadoregna a Londra, seppur accusato di colpe certo non paragonabili a quelle dei nostri. «Il caso etiope deve essere considerato quasi un caso scuola per chi si occupa di diritti umani – spiega Russo nel suo intervento –. La scelta dell’Italia difende quei diritti di fronte a tutto. Non bisogna focalizzarsi sulla vicenda specifica che sembra coprire dei colpevoli. Vale il principio generale. È infatti sin troppo facile mobilitarsi di fronte alle accuse a innocenti. Amnesty International non voleva neppure l’uccisione di un tiranno come Saddam Hussein».

La ragion d’essere storica della vicenda va cercata in quel particolare momento che segnò la fine della guerra fredda tra l’Unione Sovietica e le potenze occidentali. Menghistu instaurò dal 1974 un regime dittatoriale di stampo militare, nazionalista e marxista, il Derg, che è passato alla storia come «terrore rosso» a causa delle centinaia di migliaia di vittime, composte da operai, contadini, commercianti, frutto delle «purghe» compiute nei confronti dei suoi oppositori. Ma la storia di quei momenti non ci racconta un percorso di alleanze internazionali lineare come ci si potrebbe aspettare, anzi. A «scaricare» Menghistu nel momento della rivolta di Zenawi fu per primo Mikhail Gorbaciov, neopresidente di una Unione Sovietica fino ad allora principale sostenitrice del sanguinario tiranno.

Non solo. È ormai accertato che, al contrario, furono gli Usa a garantire a Menghistu, fuggito con un aereo a Nairobi, il suo definitivo soggiorno in Zimbabwe, dove ancora oggi vive protetto dalle autorità locali. Del resto anche il governo italiano dell’epoca fu sempre molto aperto alla collaborazione con il dittatore. Basti pensare ai 35 milioni di dollari versati per sostenere il più grande progetto di cooperazione internazionale mai attuato dall’Italia, il piano agricolo del Tana Beles, che comportò lo sbancamento di enormi foreste di bambù con il conseguente esodo forzato di migliaia di indigeni shangilla a centinaia di chilometri di distanza, piano fallimentare di cui oggi rimane solo il ricordo.

I trascorsi coloniali dell’Italia in Etiopia hanno sempre pesato molto nei rapporti bilaterali, anche con lo stesso imperatore Hailè Selassiè, brutalmente deposto e ucciso a 94 anni dagli sgherri di Menghistu, dopo aver governato tra aperture internazionali e pugno di ferro, senza sapere aiutare il suo popolo in occasione di devastanti carestie, confinato tra gli agi di palazzo in una sconcertante abulia.

Tornando ai «noti ospiti», essi furono condannati alla pena di morte per genocidio, viste le loro responsabilità nei massacri. La prima sentenza del tribunale etiope li condanna all’ergastolo nel 2007, pena poi convertita nella condanna capitale l’anno successivo. Nonostante ciò, l’Italia continua a proteggerli in nome di un principio costituzionale umanitario che vieta di consegnarli in mano a chi, seppur forse solo virtualmente, potrebbe ucciderli.

Perché si è arrivati a questo punto, visto che nel 1991 altre ambasciate ospitarono qualche diplomatico in fuga, ma tutto si normalizzò nel giro di pochi giorni? Mistretta lo spiega così: «L’ambasciatore Angeletti forse li ospita per il suo spiccato senso di umanità, che lo spinge a proteggere persone con cui ha avuto rapporti di lavoro e forse in taluni casi di vera amicizia. Oppure dietro l’ospitalità c’è una studiata strategia individuando in loro i personaggi che possono svolgere il ruolo di moderati traghettatori verso un governo più democratico e liberale. È difficile pensare che Angeletti non si sia confrontato con l’allora ministro degli Esteri Gianni De Michelis, scomparso da poche settimane. Questa interpretazione è suggestiva, però non è provata. La verità sta molto probabilmente in una combinazione di questi scenari».

Riassumendo, la situazione attuale vede dunque, in nome del garantismo più totale, due vecchi di 83 e 74 anni, giudicati responsabili di genocidio, aggirarsi senza scopo, né vie d’uscita, tre volte al giorno per i giardini che circondano la foresteria all’interno dell’ambasciata italiana, in cui vivono in stanze separate con bagno e cucina in comune. Il terzo ospite, Gebrekidan, morì nel giugno 2004 dopo una rissa con gli altri due ospiti, al termine della quale finì a terra battendo il capo.

Berhanu Bayeh e Addis Tedla, secondo le autorità etiopi, si macchiarono di orrendi delitti, corresponsabili in qualche modo dell’esecuzione di decine di migliaia di oppositori (cinquecentomila secondo Amnesty), che vennero uccisi in modo barbaro dagli squadristi di Menghistu, «con i loro corpi lasciati abbandonati per strada quale monito a non deflettere dai principi rivoluzionari, specialmente per creare quel clima di persistente intimidazione che caratterizzò il Paese per anni», commenta Mistretta.

Lo stesso Bayeh gli rivelò però che «lui e alcuni altri esercitarono sul leader tentativi per smorzarne la carica omicida» e che Tesla si accodò facendo presente che «la più cospicua minaccia al regime proveniva non più dall’opposizione interna, ma dal fronte con la Somalia». Tutto fu inutile. I nostri si acquistarono il forse unico merito di aver evitato l’ultimo e definitivo spargimento di sangue il giorno in cui i ribelli armati eritrei e tigrini conquistarono la capitale, dopo la fuga di Menghistu.

Fatto sta che già otto anni fa l’allora nuovo presidente africano Girma Woldegeorgis decise di commutare in ergastolo la pena di morte per 23 alti ufficiali del Derg, i quali riconobbero pubblicamente anche per iscritto i loro crimini e chiesero il perdono ai parenti delle vittime. «Nelle liste – aggiunge Mistretta – non compaiono però i “noti ospiti” sia perché contumaci, sia per non aver mai presentato una chiara e inequivocabile ammissione di responsabilità, con correlata richiesta di perdono».

I nuovi leader etiopi, che peraltro non hanno mai avanzato nel tempo richieste scritte di consegna dei due uomini per non turbare troppo gli amicali rapporti esistenti anche oggi con l’Italia, appartengono, anche secondo Mistretta, «a una fase storica del tutto diversa». «È ormai chiaro dunque – conclude l’ex ambasciatore – che in caso di resa potrebbero sì subire qualche anno di carcere, ma che non esiste un vero rischio di applicazione della pena di morte, mai eseguita per nessun esponente del Derg».

In ogni caso è convinzione etiope che, per ottenere un gesto di clemenza, «i due ex gerarchi debbano prima uscire dal compound, consegnarsi alle forze di sicurezza e sottostare a loro volta a un processo, a cui sinora si sono sottratti». Di fronte al loro ostinato rifiuto di considerarsi colpevoli, lo stallo continua. Riportarlo, anche attraverso il libro, all’attenzione dell’opinione pubblica, lo risolverà?

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