C’era una volta il Karamoja

di claudia

Nel Nord dell’Uganda alla scoperta di un popolo di pastori, fieri e irrequieti, in bilico tra passato e futuro. I Karimojong vivono con le loro mandrie in una regione dove da secoli difendono con le armi mandrie, pozzi e pascoli. Oggi la loro società pastorale è scossa da cambiamenti epocali

di Alberto Salza – foto di Luis Tato / Afp

L’ultima volta che sono stato in Karamoja, l’aria era tesa: a un posto di blocco lungo la pista Moroto-Iriir, alcuni guerrieri erano stati presi a bastonate dalla polizia durante il recupero di armi illegali. C’era stato pure un morto. Per protesta, i guerrieri si mobilitarono in un attacco ai militari che causò 8 vittime. L’indomani, il governo mandò nei villaggi circostanti i carri armati. Arrestati in 15, recuperati 21 fucili automatici. Effetto collaterale: capanne e botteghe saccheggiate dalle forze dell’ordine. Ci vollero incontri tra anziani, autorità locali e forze armate per sedare gli animi. Non stupisce che i Karimojong (o Karamojong), pastori di vacche in queste desolazioni collinari, chiamino il governo aryeng: “nemico”.

Ci vuole il fisico

Prima del massiccio avvento delle armi da fuoco tra il Lago Turkana e le colline del Karamoja, attraversai un campo di battaglia tra Karimojong e Turkana: un centinaio di morti a colpi di lancia e di mazza. Le due popolazioni sono strettamente imparentate, derivate dalla migrazione dei Teso dalla valle del Nilo. Personalmente, dopo quasi cinquant’anni di frequentazione, non riesco a distinguerle. In mezzo ai morti, un Turkana mi disse con disprezzo: «Ma non vedi che i nostri nemici hanno la testa quadra?».

Fino al 1800, Karimojong e Turkana erano un’unica popolazione: stesso genoma, stessa lingua (nilotico-orientale) e cultura pastorale. Le recenti pratiche di sussistenza evidenziano però determinanti di crescita divergenti. Genetica o ambiente? È la tipica domanda idiota, come si potesse distinguere l’importanza del lato lungo o corto nell’area di un rettangolo. Fatto sta che il tasso di crescita di statura nelle due popolazioni è pressoché identico, mentre varia il modello di sviluppo del peso nell’infanzia. Entrambe le popolazioni hanno il fisico longilineo di chi abita le savane dell’Africa orientale, ma i Karimojong sono più grassi e pesanti dopo la fanciullezza. Mentre l’esilità ossea e la statura sono tratti genetici, l’antropometria ci dice che la grassezza è correlata a differenze nella sussistenza e all’esposizione a stress socio-ecologici. In fondo, basta essere un po’ più grassi per diventare un nemico.

Vecchi e topi

I Karimojong, come tutte le popolazioni dell’area, hanno il senso della guerra cosmica. In una sorta di flipper, abbiamo passato le notti a guardare i satelliti, aspettando il loro urto contro una stella. La mancata collisione deludeva soprattutto gli anziani, ma la speranza di un’esplosione galattica tornava con l’orbita successiva.

Nella belligeranza, gli anziani hanno perso il controllo. Il sistema delle classi di età (senior e junior) attribuisce una complessa forma di autorità ai vecchi maschi. A complicare la faccenda interviene un dualistico bilanciamento di potere che prevede una distanza politica tra nonni e nipoti, onde evitare combutte nelle decisioni. Dato che solo i figli dei senior accedono a una piena iniziazione, può succedere che i figli della generazione junior rimangano ngidooi, “topi”.

Dal momento che il tasso di fertilità è assai alto in Karamoja (8 figli per donna), la maggioranza dei maschi giovani appartiene ai “topi”. Si crea così un vuoto di potere tra padri e figli, i quali, però, sono pesantemente armati con fucili d’assalto (l’onnipresente AK-47) con cui si prendono quel che vogliono, dallo status alle vacche. «Gli anziani sono senili», dicono i “topi” usando un termine più pesante, «non contano niente». Il sistema delle classi di età, che ha sorretto la società pastorale dei Karimojong e la sicurezza nell’area, semplicemente non esiste più.

I membri della comunità pastorale di Karamojong si riuniscono e discutono durante un incontro di colloqui di pace intercomunitari a Loletekia, in Uganda, vicino al confine con il Kenya

Quadretto di società ancestrale

Eppure, secondo gli antropologi del “c’era una volta”, esiste un’idilliaca vita standard per i Karimojong. All’alba, nei recinti delle vacche dalle corna a forma di lira, il latte appena munto diventa burro e proclama l’arrivo della luce. Si vedono bambini nudi correre nello sterco alle caviglie, intenti a scaldarsi direttamente al getto dell’orina vaccina che serve a cagliare il latte. E poi, transumanze di decine di chilometri in cerca di pascoli tra colline riarse dal sole, con gli uomini che a pranzo consumano latte, frutta selvatica e miele, contemplando soddisfatti il loro cornuto capitale su zampe, fonte di ogni status sociale ed economico.

Nel frattempo, scherzando tra loro, le donne sbrigano le faccende domestiche alle capanne: raccolgono legna, trasportano l’acqua, zappano l’orto dove, dato il clima arido e la pioggia erratica, le piante sono fantasmi. E le donne danzano, pure. Al tramonto, rinchiuse le centinaia di vacche nei recinti, le famiglie si riuniscono per la cena: sangue, mescolato con erbe e latte, e un po’ di polenta di sorgo a riprova dell’alternanza stagionale tra accampamenti di pascolo (nawii) e villaggi per l’agricoltura semisedentaria (ere). Gli anziani, il corpo nudo avvolto in una lurida coperta, si seggono sui loro poggiatesta/sgabello e sniffano tabacco chiacchierando, cosa che hanno già fatto per tutto il giorno sotto un’acacia. E poi, iene permettendo, si dorme aspettando l’alba.

Pastori da cambiare

Il bel quadretto colora e odora di vacche. Negli anni Sessanta, un pastore poteva affermare: «Un Karimojong ama il suo bestiame sopra ogni cosa: per le vacche darebbe la vita». Come l’eschimese Smilla e il suo senso per la neve, il mandriano karimojong usa quasi mille parole per dire “vacca”. Combina e permuta colore e macchie del mantello, forma di muso e orecchie e, soprattutto, la classificazione delle corna (ngolo). Si passa da quelle in avanti (icogor) a quelle incrociate (kede), passando per all’ingiù (luk), una su e l’altra giù (kamarr se quella in giù va in avanti, dieta se scende dritta), e altre 7, compresa l’assenza di corna (lim).

Con le mani e qualche attrezzo, un buon pastore modella le corna, soprattutto quelle del bue da cui riceve il nome (non viceversa): egli è il suo bestiame.

Noi amiamo l’immagine del pastore nomade, ma non prenderemmo mai il suo posto. E così, tra le fucilate dei governativi, le continue razzie dei vicini parenti e le carestie indotte dalla crisi climatica (a fine inverno 2019, sciami di locuste hanno divorato i pascoli, a causa di piogge mai registrate prima), i Karimojong stanno abbandonando la pastorizia per rifugiarsi in città. D’altra parte, la First Lady dell’Uganda, Janet Museveni, in carica come ministro del Karamoja fino al 2016, si è data un gran daffare contro il nomadismo e a favore della sedentarizzazione: è stato sufficiente complicare la burocrazia per l’accesso all’acqua e lo scavo di pozzi a mano (copiando il Kenya), oltre a emettere ordinanze contro la libera circolazione del bestiame, un imperativo categorico per la pastorizia a largo raggio dei Karimojong.

Trappole urbane

Le Nazioni Unite informano che 20 milioni di persone sono a rischio alimentare in Africa orientale. Se la vita standard consentiva una dieta di sangue e latte, quella di città richiede un salto di grado. Anzi, di gradazione. A partire dal 2004, a seguito della repressione governativa, le donne karimojong hanno abbandonato la vita tradizionale. Dai piccoli centri urbani fino a Kampala, gli uomini, avviliti, senza dimora o dignità, si erano dati all’alcol. Vedendo svanire i pochi soldi ricavati dalla vendita del bestiame sopravvissuto alle siccità, le donne decisero di produrre la birra in proprio, vendendola ai mariti: clamoroso esempio di economia circolare. Dapprima la birra di sorgo, e poi i fermentati/distillati ricavati dagli aiuti umanitari (già) sono divenuti il “bestiame delle donne”: garantiscono alimento dagli scarti di produzione (zuccheri e carboidrati, che integrano per il 12% la dieta infantile con gravi rischi, dati i residui alcolici), e possono essere venduti nella cash economy della modernità, per pagare cibo, scuola, medicine, magliette.

Ovviamente, ditte come Heineken (leggete il libro di Olivier van Beemen Heineken in Africa per capire la corruzione economica, sessuale e psicofisica indotta dai birrai olandesi) si son date alla concorrenza con enormi profitti. E così, anche le donne karimojong vanno in malora.

Agli uomini resta l’accattonaggio: in fondo in fondo appare come una forma di razzia. Miss Tourism Karamoja 2019-20, Iryn Lemukol di Moroto, si impegna: «Credo che dare supporto ai Karimojong che vogliano tornare a casa tolga loro la ragione per restare in città. E i mendicanti saranno spinti a tornare in Karamoja, via dalle strade dove campano in miseria, a stento». Negli anni, in Karamoja come in altre aree ex-pastorali, a causa dell’alcol ho visto morire tanta gente e tanto male. Eppure, sentendo il farfugliare degli amici ubriachi, mi parve di avvertire come, nel delirium tremens, l’incubo peggiore fosse la vita standard.

Una donna Karamojong cerca di attraversare una zona fangosa nel villaggio di Kochunoi, Uganda
I membri di una famiglia di pastori mungono le mucche la mattina presto
Una donna di Karamojong porta in braccio il suo bambino e si prepara per la giornata davanti a casa sua

(Alberto Salza – foto di Luis Tato / Afp)

Questo articolo è uscito sul numero 4/2021 della rivista. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop.

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