Vaticano – Preghiera per Rd Congo e Sud Sudan: «Due crisi come quella siriana»

di Enrico Casale
papa francesco in kenya

Quando si parla di conflitti in Africa, emerge sempre il nodo – che appare irrisolvibile – del controllo delle risorse naturali: diamanti, minerali, accaparramento delle terre agricole. Come si può provare a modificare questa situazione?

«Dobbiamo in primo luogo levarci dalla testa che si tratti di guerre tribali, etniche; sono appunto guerre per il controllo delle risorse, per accedere alla ricchezza, nelle quali sono coinvolti grandissimi interessi internazionali; l’analisi e lo studio ci aiutano a capire le corresponsabilità e quindi ad assumere consapevolezza e stili di vita diversi. Poi c’è anche la solidarietà concreta verso le persone, per cui è necessario unire alla dimensione spirituale, alla preghiera, la dimensione della solidarietà verso le popolazioni civili che sono le vere vittime di questi conflitti».

Ecco, quando parliamo di solidarietà concreta, cosa intendiamo? Quali sono le priorità viste da qui, dall’Europa?
«Il Papa ci chiede di digiunare, e il digiuno è utile per noi, ma è anche il segno di una rinuncia a qualcosa di nostro, qualcosa che reputiamo essenziale, perché queste popolazioni finiscono poi alla fame. Ci sono ormai ricerche che pongono in correlazione il cibo con le guerre, in qualche modo emerge la volontà programmata, strutturata, di distruggere il nemico fino al fatto di privarlo del necessario per vivere. Quindi ci sono tutta una serie di progetti che sosteniamo con l’aiuto della Conferenza episcopale e di altri donatori – progetti che hanno bisogno di ulteriori risorse – per fornire generi di prima necessità alle popolazioni con uno sguardo pure al futuro sviluppo di queste popolazioni».

Un impegno che vale sia per il Congo che per il Sud Sudan?
«In questo caso siamo di fronte a due Paesi grandi, con tante diocesi, con grandi necessità in cui la guerra non è localizzata in un solo punto, che quindi hanno vari elementi in comune; però ovviamente sono anche due Paesi completamente diversi e ogni intervento deve essere mirato sulle esigenze di quella comunità particolare».

Due questioni mi sembra vadano messe in luce: il tema degli sfollati interni e dei profughi è molto forte sia in Congo che in Sud Sudan, e poi anche lo sfruttamento dei bambini soldato, dell’infanzia trasformata in milizie. Come si può sensibilizzare l‘opinione pubblica su questi aspetti?
«Sono due questioni molto care a Papa Francesco e rispetto alle quali dobbiamo porci alcuni interrogativi: il numero di sfollati in questi due Paesi ormai è quasi paragonabile a quello dei siriani, siamo di fronte a due catastrofi umanitarie complesse. Non possiamo porci il problema degli sfollati, dei rifugiati e in generale dei migranti solo quando giungono da noi quando ci coinvolgono. Bisogna ricordare che queste problematiche diffuse nel mondo riguardano solo parzialmente l’Europa, l’Africa invece conosce dei flussi migratori enormi di cui non parla mai nessuno, sono eventi gravissimi poiché pongono un’infinità di problematiche dentro i Paesi e tra i Paesi. Per il secondo punto, partiamo col dire che l’anno in corso è quello che porterà la Chiesa universale al Sinodo dei giovani (ottobre 2018, ndr), i giovani come segno di speranza; ebbene non si può tacere allora il fatto che in diversi Paesi i bambini, i giovani, vengono strumentalizzati nelle loro stesse menti, per diventare combattenti, soldati. E questo è gravissimo, è inaccettabile, è uno scandalo per questa umanità contemporanea, dobbiamo quindi compiere ogni sforzo per cambiare la rotta soprattutto in queste due nazioni dove tali fenomeni sono molto diffusi».

Considerato questo contesto, in che modo si potranno aprire in Africa dei processi democratici, come potranno emergere classi dirigenti più mature e forti?
«In questo momento indirizzerei soprattutto la denuncia sul fatto che stiamo trasformando la nostra cooperazione internazionale, soprattutto quella tra governi, in uno strumento di contenimenti di flussi migratori verso l‘Europa. Non stiamo cioè lavorando a partire dalle povertà più profonde, non stiamo mettendo in campo un lavoro diplomatico per risolvere pacificamente questi conflitti. La priorità assoluta è aiutare i Paesi di transito dei migranti affinché non giungano da noi. Questa è la cosa più grave perché se invece noi pensassimo al bene vero di queste nazioni, al bene vero delle classi dirigenti di questi Paesi, per accompagnarle in processi di pace – come è stato fatto in passato, anche da parte dell’Italia e dell’Europa – forse faremmo il vero lavoro di prevenzione delle migrazioni forzate che danneggiano in primo luogo chi lascia il proprio Paese in condizioni veramente misere».

Quale ruolo può svolgere oggi la Chiesa di fronte alla situazione drammatica in cui si trovano Sud Sudan e Repubblica Democratica del Congo?
«La Chiesa è molto ampia e ci sono mille espressioni di Chiesa, però noi dobbiamo testimoniare quelle esperienze delle Chiese locali veramente spese per il bene della gente, delle loro popolazioni anche rischiando la vita, e i casi sono numerosissimi sia in Congo che in Sud Sudan. È una testimonianza sia nelle prese di posizione, ma ancora di più nel vivere e nell’affrontare la povertà, le difficoltà, il fatto stesso di dover fuggire dalle proprie terre, e non parlo assolutamente solo delle Caritas locali ma di mille espressione di Chiese locali – vescovi, parroci, catechisti – che in molte situazioni sono giunti a dare la vita per la propria gente e con la propria gente».
(23/02/2018 Fonte: La Stampa)

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