Uganda Boxing Club

di claudia
box

di Marco Trovato

A Kampala, migliaia di ragazzi e ragazze praticano la boxe, con pochi mezzi e tanta passione, accarezzando sogni di gloria e di riscatto. L’Uganda ha una grande tradizione nel pugilato. I giovani di oggi ambiscono a emulare le leggende del passato. E in ogni quartiere della capitale ci sono palestre e spazi di aggregazione dove si insegna a tirare pugni e a schivarli.

I colpi che riecheggiano sui tetti metallici di Makindye sembrano raffiche di armi automatiche. Ma gli abitanti di questo sobborgo popolare a sud di Kampala sono abituati a quelle potenti scariche che sovrastano il bailamme del traffico. Nemmeno le urla dei pastori che sbraitano sermoni apocalittici riescono a superare le bordate dei pugili del Lukanga Boxing Club. Si danno appuntamento ogni giorno, nel tardo pomeriggio, per gli allenamenti in uno spiazzo fangoso ricavato in un puzzle di baracche di latta e legno. Arrivano alla spicciolata da ogni parte della città: aggrappati a pulmini stipati all’inverosimile o in sella ai boda-boda (i moto-taxi che ronzano ovunque nella capitale ugandese).

Fucina di campioni
Uno, dieci, cento. In un attimo i pugili si disfano dei vestiti della giornata e restano in pantaloncini e canotta sportiva. Avvolgono le mani con fasce e bendaggi sfilacciati. Indossano i guantoni. E si mettono agli ordini del coach, Sanyanga Zebrah, un gigante dal collo tarchiato, lo sguardo truce e i muscoli scolpiti nel granito. «Sono fiero dei miei ragazzi – si scioglie in un sorriso –. Fanno sacrifici enormi pur di non perdere gli allenamenti. Alcuni fanno due ore di strada per venire in palestra. E quando sono qui, danno del loro meglio. Anche se hanno avuto una giornata lunga e difficile al lavoro o a scuola. Il pugilato sembra dare loro nuova energia, anziché consumarla».

La palestra non esiste, le attività si svolgono all’aperto. Tra vicoli limacciosi, casupole, pollai, fili elettrici penzolanti e panni stesi. C’è giusto uno stanzino avvolto nella penombra che funge da ufficio. Le pareti sono tappezzate di medaglie, attestati, manifesti ingialliti di match memorabili. Uno scaffale è ingombro di coppe e trofei impolverati, grandi come fioriere. «Qui è custodita la nostra memoria», dice Daniel Musante, 43 anni, manager del Lukanga Boxing Club. Seduto su un sofà sbrecciato, mi mostra l’albo d’oro della palestra. «Da qui sono usciti alcuni dei migliori pugili d’Africa, che hanno scritto pagine indelebili nella storia della boxe. Leggende come Tom Kawere, medaglia d’argento 1958 nei pesi welter; Kesi Odongo, argento 1962 nei superleggeri; George Oywello, oro 1962 nei pesi massimi; Ayub Kalube, oro 1974 nei superleggeri; Grace Seruwagi, il più grande coach di tutti i tempi… E campioni più recenti, come Joseph Lubega, Justin Juuko, Martin Mubiru…».
L’Uganda ha una grande tradizione nel pugilato e ancora oggi la passione per questo sport è pari solo a quella per il calcio. I quartieri popolari della capitale pullulano di giovani che, ispirati ai grandi atleti del passato, si allenano duramente accarezzando sogni di gloria.

In cerca di spazi
«La fame di successo sta alla base dei sacrifici di tanti ragazzi che non trovano lavoro né altre opportunità», dice Samuel Lukanga, ex pugile professionista, fondatore della palestra che porta il suo nome. «I nostri figli crescono in una società difficile e spietata. Chi proviene da famiglie povere sembra condannato a una vita di stenti. Per molti, droga e gang criminali sono un’attrazione fatale. Per questo ho voluto aprire una palestra. Per dare un rifugio dalla violenza degli slum e offrire una chance di riscatto attraverso lo sport».
Lukanga, conosciuto come il “Don King dell’Africa”, ha investito tutti i suoi risparmi in questa impresa creata trent’anni fa. «Ho cresciuto generazioni di pugili, scoperto molti talenti, ma la cosa di cui vado più fiero è che ho salvato dalla strada migliaia di ragazzi». Vorrebbe costruire un edificio per dare un tetto ai suoi allievi, permettere loro di allenarsi al coperto. Mi mostra il progetto: «Abbiamo bisogno di aiuto. Chi vuole darci una mano può mettesi in contatto con noi attraverso la pagina Facebook della palestra».
A Kampala il pugilato si pratica in scantinati, parcheggi pubblici, autorimesse, cortili, capannoni industriali, persino in luoghi sacri. «Quando piove e non c’è la messa, metto la mia chiesa a disposizione di una ventina di ragazzi che vogliono allenarsi», dice Godfrey Mutewela, predicatore pentecostale, intento a spostare le panche nella sua cappella di lamiere arrugginite nel quartiere di Kibuye. «Sono bravi cristiani. Quando finiscono di tirare pugni, si fermano a pregare. L’importante è che non provochino danni all’altare».

L’arte di arrangiarsi
Il fascino della boxe si è insinuato anche in ambienti islamici. Hussein Khalil, 56 anni, musulmano rigoroso, gestisce l’East Coast Boxing Club, una palestra piccola ma molto frequentata. Nel cortile c’è un ring sfondato e arrugginito. L’interno è messo meglio. Accatastati in un angolo ci sono vecchi pneumatici; dalla parte opposta, gli attrezzi per forgiare bicipiti e pettorali. Tutto è fatto in casa: arnesi da officina e parti di motori meccanici sono usati come pesi e bilancieri. Dal soffitto pendono tre sacchi artigianali, assemblati con stoffe e brandelli di pelle riciclata da vecchi divani.
«Gli allenamenti si tengono prima e dopo le preghiere prescritte dal Corano, ma nessuno è obbligato a invocare il nome di Allah», racconta Hussein accarezzandosi la barba lunga e arancione come quella del profeta Maometto. «La palestra è frequentata da 130 atleti dai 7 anni in su. Ci sono anche cristiani e induisti. La boxe cementa un prezioso senso di coesione e fratellanza, specie oggi che la religione è spesso brandita come un’arma. Come per magia trasforma la rabbia e violenza in energia positiva e propulsiva».

La più antica palestra di pugilato è il Kampala Boxing Club. Si trova sotto le gradinate del vecchio stadio di Nakivubo. La luce filtra dalle finestre lerce che affiorano sulla strada e che attirano nugoli di bambini curiosi: i loro sguardi indiscreti spiano dall’alto gli atleti impegnati a provare i loro fendenti sui bancali di legno che fanno da ring. Ogni sera quaggiù si rintanano i migliori boxeur della città. Ma anche decine di lottatori alle prime armi, guidati da una manciata di inflessibili istruttori dallo sguardo severo.

Popolo di lottatori
Edwin Mosley tiene sotto torchio un paio di ragazzini col fiato corto e i muscoli ancora acerbi. «Devono ancora “farsi” – dice scrollando la testa –, ma stanno crescendo giorno dopo giorno. Perché si allenano con impegno e costanza».
La palestra è frequentata da più di 250 atleti, di ogni età e categoria. Troppa gente per questo piccolo covo sotterraneo. In poco tempo l’aria si impregna di sudore e di umidità mentre i pugni esplodono in rumori assordanti. All’ora di massima affluenza, poco prima del tramonto, una moltitudine impressionante di guantoni sgualciti si incrociano negli spazi angusti. «Ci stringiamo il più possibile, ma non riusciamo a contenere l’entusiasmo dei nostri giovani per il pugilato», spiega Mohamed Abemugai, allenatore-manager di grande esperienza. Dicono che siano stati gli inglesi, ai tempi della colonia, a portare la boxe all’Equatore. «Balle: noi ugandesi siamo un popolo di lottatori indomabili, questo sport ci scorre nel sangue – protesta l’istruttore –, la nostra storia sportiva è piena di imprese gloriose».
Ricorda i trionfi di Kassim Ouma e di John “The Beast” Mugabi, campioni mondiali dei pesi medi. «Finora sono stati i pugili più forti. Ma presto saliranno alla ribalta altri grandi lottatori ugandesi – profetizza Mohamed –. E le sorprese migliori arriveranno dalle donne».

Pugni in rosa
La regina della palestra si chiama Shabira Namagga: ha 22 anni, 63 chili, gambe agilissime. E tira pugni che fanno paura. Non è l’unica presenza femminile. Sul ring si alternano una dozzina di ragazze dall’aria spavalda. «Provengono da ambienti sociali disagiati e da famiglie povere», spiega Ayo Teddy, 30 anni, fondatrice del Blackpower Female Wrestling Club, prima e unica società di lottatrici ugandesi. «Alcune sono ex ragazze di strada, altre, prostitute contagiate dall’aids. Per loro la palestra rappresenta un’ancora di salvezza, uno spazio di libertà dove cullare sogni di riscatto. Ma anche, più semplicemente, un rifugio per stare lontane dall’inferno».
Michelle Bitjum, 26 anni, occhi profondi, capelli rasta arruffati, un corpo slanciato pieno di cicatrici, proviene dallo slum di Kibuli. «È un posto pericoloso, tutti gli uomini vanno in giro col coltello. Di notte è impossibile stare tranquille». Per molti anni Michelle è stata costretta a prostituirsi. «Non avevo alternative, se volevo vivere. Ma ora sogno di diventare una lottatrice professionista: ce la sto mettendo tutta, vengo qui ad allenarmi ogni volta che posso».

Per non finire ko
Accanto a lei c’è Grace Timigamba, 21 anni, che per recarsi in palestra deve sfuggire al controllo della famiglia: «I miei genitori dicono che questo è uno sport pericoloso, violento, che non si addice alle donne. Io non la penso così: voglio sentirmi sicura quando esco di casa perché questa città è piena di ladri e di molestatori. Ogni donna dovrebbe imparare a difendersi da sé».
Gli abusi sessuali in Uganda non si contano. Le violenze vengono consumate a decine, ogni giorno, spesso negli ambienti familiari, quasi sempre nel disinteresse generale. Pochissimi sono i casi denunciati alla polizia, ancora meno quelli che finiscono con una condanna per il violentatore. «Alcune ragazze fanno boxe per difendersi, altre per restare in forma, altre ancora per sentirsi più sicure», dice Mercy Mukonkusi, allenatrice della nazionale di pugilato femminile. «La gente pensa che la boxe sia solo una questione di potenza, di muscoli gonfi e forza bruta. Ma senza l’astuzia, la velocità e la determinazione si finisce ben presto ko. Noi donne lo abbiamo capito da tempo. Siamo astute, veloci, determinate. Più degli uomini. Per questo metterci al tappeto è difficile… Dentro e fuori dal ring. La vita per noi è un allenamento continuo».

Foto di apertura: Marco Garofalo

Questo articolo è uscito sul numero 6/2022 della rivista Africa. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop

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