Sudan: la difficile strada per la democrazia

di claudia

Dopo la caduta di al-Bashir, la transizione democratica rimane oggi a metà. Il Paese sembra incapace di reagire alla crisi economica che condiziona la vita della maggior parte dei sudanesi. Per il massacro dei 104 giovani uccisi il 3 giugno 2019 dalle milizie nessuno è stato finora incriminato. I militari hanno mantenuto potere e prerogative che avevano con Bashir e a questo si aggiungono nuove accuse a loro rivolte

di Maria Scaffidi

La sterlina sudanese sembra ormai carta straccia tanto vorticosa è l’inflazione che sta interessando da oltre un anno il Sudan. La fine delle sanzioni da parte degli Stati Uniti – e decretate a suo tempo quando ancora alla guida del Paese c’era Omar Hassan al-Bashir – non sembra aver cambiato le carte sul tavolo. Il prezzo del pane aumenta, così come quello di molti generi di prima necessità; e il Paese sembra incapace di reagire nell’immediato nonostante il riavvicinamento alla comunità internazionale e gli impegni di aiuti e investimenti che arrivano sia dall’Occidente che dal mondo arabo come dalla stessa Turchia. Fonti locali della Rivista Africa riferiscono che in banca un euro vale oggi 510 sterline sudanesi mentre al mercato nero si arriva a 540. “La vita per la maggior parte dei sudanesi è diventata più difficile e allo stesso tempo c’è una sete di giustizia che si scontra con una realtà, quella nata dopo la caduta di Bashir, ancora almeno in parte legata al passato”.

C’è, è vero, un primo ministro, Abdalla Hamdok, che è espressione della società civile, ma attraverso il Consiglio sovrano i militari hanno mantenuto potere e prerogative che avevano con Bashir. A capo di esso c’è un generale, Abdel Fattah Abdelrahman Burhan; il suo vice è Mohamed Hamdan Dangalo (alias Hemetti), noto per aver inquadrato le vecchie milizie janjaweed del Darfur nelle sedicenti Rapid Support Forces (Rsf). Dangalo non è però semplicemente un capo militare, ma è anche un ricco uomo d’affari, uno dei più ricchi del Paese. Membro della tribù darfuriana dei Rizeigat, Dangalo ha accumulato una fortuna considerevole attraverso la società al-Junaid che ha interessi in disparati settori che vanno dal minerario (oro, ferro), ai trasporti, a investimenti speculativi.

Le Rsf sono accusate di responsabilità nel massacro di 104 giovani sudanesi che il 3 giugno del 2019 (esattamente due anni fa) si erano riuniti in un sit-in nel tentativo di sostenere gli sforzi di una parte del Paese di arrivare a una transizione democratica dopo la caduta di Bashir (che era stato rimosso il precedente 11 aprile). Quel giorno militari e milizie aprirono il fuoco contro protestanti inermi uccidendone almeno 104, ferendone altri; nei racconti e resoconti dei giorni successivi emersero notizie di stupri, di violenze gratuite, di decine di corpi lanciati nel Nilo. Quei fatti portarono alle dimissioni dell’allora capo del Consiglio di transizione militare (la giunta che aveva preso il potere dopo Bashir), Awad Ibn Auf, sostituito proprio da Burhan. E portarono a nuovi colloqui poi effettivamente sfociati nell’assetto politico oggi in atto che vede una coabitazione di civili e militari. Ma per quei morti del 3 giugno nessuno è stato finora incriminato e non si sono accertate responsabilità. Una sete di giustizia rimasta inappagata così come a metà sembra essere l’attuale fase di transizione: colpita dalla crisi economica (solo in parte legata agli effetti della pandemia) e da accuse esplicite rivolte ai militari. Come quella rivolta poche settimane fa da Aisha Moussa El-Saeed. Membro del Consiglio sovrano, Aisha Moussa El-Saeed, si è dimessa denunciando l’esclusione dei civili all’interno delle istituzioni.

Insegnante e attivista, Aisha Moussa Saeed è stata tra le voci più critiche di Burhan. Durante una conferenza stampa, ha detto di aver presentato le sue dimissioni dopo la morte di due manifestanti, l’11 maggio, mentre commemoravano la sanguinosa repressione della manifestazione che aveva portato alla caduta dell’ex presidente Bashir.

“Io e i miei colleghi credevamo di poter ribaltare la situazione e curare le profonde ferite di un popolo esausto – ha detto – essere in grado di risolvere le divergenze tra le parti e poter continuare a chiedere sinceramente il cambiamento. Ma non possiamo più non considerare il fatto che le nostre opinioni vengono ignorate e le nostre prerogative vengono violate. A tutti i livelli di potere, la nostra presenza come civili è stata ridotta a quella di semplici comparse”.

(Maria Scaffidi)

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