La Sierra Leone celebra i sessant’anni dell’indipendenza

di claudia

Il 27 Aprile 1961, la Sierra Leone ottiene l’indipendenza dopo più di 150 anni di dominio coloniale britannico. Oggi, a sessant’anni da quella data è una nazione vivace, dinamica e resiliente, in grado di riprendersi da crisi disastrose e di porre basi sempre più solide per il futuro.

La mattina del 27 aprile 1961 a Freetown un manipolo di soldati inglesi ammaina per l’ultima volta la Union Jack, pochi secondi più tardi fra canti e urla di gioia una nuova bandiera a strisce orizzontali verde bianco e azzurro sale sul pennone più alto: sull’onda del Ghana e della Nigeria la Sierra Leone ottiene la sua indipendenza dopo oltre 150 anni di dominio coloniale britannico.

Era infatti il 1808 quando la corona prese il controllo diretto dei territori della “Province of Freedom”, l’area dell’attuale Freetown, fondata vent’anni prima grazie ad associazioni abolizioniste per dare una casa agli schiavi liberati.

Un’indipendenza “a freddo”, non sospinta da rivolte o scontri né negoziata da leaders autorevoli, poco più di un passaggio di consegne programmato nei dettagli con un anno di anticipo. Talmente programmato che per evitare di rovinare i festeggiamenti l’anziano e saggio padre della patria Milton Margai fece mettere agli arresti domiciliari preventivi i principali esponenti sindacali e dei partiti di opposizione tra cui, ironia della sorte, Isaac Wallace Johnson, intellettuale anticolonialista e panafricanista stretto collaboratore di Kwame Nkrumah nella lotta per l’indipendenza del Ghana.

Nota ai più come terra di diamanti e conflitti la Sierra leone sembra condannata ad apparire sui radar dei media internazionali solo in occasione di tragedie o disastri. A onor del vero in questi sessant’anni il piccolo paese del West Africa ha visto sei colpi di stato, una ventina d’anni di regime a partito unico, dieci drammatici anni di guerra civile oltre a pesanti crisi economiche o sanitarie, fra cui la tragica epidemia di Ebola del 2014-2015.

Momenti difficili che costellano una storia spesso in salita ma che non bastano a raccontare una nazione estremamente vivace, dinamica e resiliente, in grado di riprendersi da crisi disastrose e di porre basi sempre più solide per il futuro.

L’alternanza democratica ad esempio è ormai una prassi consolidata: dalla fine del conflitto tutte le elezioni sono state relativamente tranquille, trasparenti e accettate dalla parte sconfitta, anche quando hanno comportato un cambio di regime come nell’ultimo appuntamento elettorale. Grandissimi passi avanti sono anche quelli che riguardano la libertà di opinione e stampa, grazie alla recente abolizione della “criminal libel law”, e riguardo l’accesso al sistema sanitario, reso gratuito per donne in gravidanza e bambini fino ai cinque anni dal precedente governo.

Certo le sfide sul tavolo del presidente Bio, ex generale dell’esercito già presidente golpista negli anni della guerra civile, sono ancora parecchie: dall’economia monopolizzata dalle industrie estrattive al degrado ambientale, dalla cronica carenza di servizi ed infrastrutture efficienti fino alla lotta al saccheggio di risorse e materie prime da parte di stati terzi.

Il vero nervo scoperto del paese però è ancora oggi la contrapposizione fra le due principali etnie dei Mende, prevalenti nel sud-est del paese e dei Temne del nord. Una tensione che si nasconde sotto una quotidianità pacifica e ben integrata ma che si accende con forza durante gli appuntamenti elettorali.

Solo poche settimane fa la sindaca di Freetown Yvonne Aki Sawyerr è finita nella bufera per una registrazione “rubata” in cui secondo i suoi oppositori utilizzerebbe il saluto Mende “Buwa Bisie” in termini dispregiativi verso alcuni membri del suo staff; pochi anni fa invece la nomina di un vescovo del sud nella diocesi settentrionale di Makeni creò talmente scompiglio nel clero locale da costringere il Vaticano a un clamoroso passo indietro nominando un vicario provvisorio.

Problemi antichi ma effimeri, che sembrano svanire davanti alla capacità di superare il passato e proiettarsi nel futuro: oltre la metà dei Sierraleonesi non conosce la guerra perché è nata dopo la fine del conflitto civile, quasi un quinto addirittura non ha visto con i propri occhi l’epidemia di Ebola.

“Firmly united ever we stand”, resteremo per sempre uniti, dice l’inno nazionale che riecheggia ogni mattina nei cortili di tutte le scuole e che oggi migliaia di voci canteranno all’unisono per festeggiare i sessant’anni della Sierra Leone.

Sessant’anni portati alla grande, nonostante tutto.

(Federico Monica)

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