Anche in Africa vince la ruspa

di AFRICA
Abidjan

All’inizio del 2020, poco prima dell’ondata pandemica, una notizia giunge dalla Costa d’Avorio e fa il giro delle principali testate giornalistiche europee: senza saperlo l’opinione pubblica del vecchio continente si affaccia alle dinamiche controverse del “regno dell’informale” africano. Si registra, infatti, il 10 gennaio, la tragica scomparsa di un 14enne intrufolatosi nella stiva di un aereo partito da Abidjan e diretto a Parigi. Il giovane, residente nelle baraccopoli immediatamente adiacenti all’aereoporto “Houphouët-Boigny” incontra la morte ignorando la letalità dell’impresa. E mentre da noi si ripete il consueto dibattito sulla “chiusura” dei porti, lo stesso evento, nell’arco di una settimana, permette l’ennesimo giro di vite nella politica urbanistica della megalopoli ivoriana.

Una storia che viene da lontano

Le autorità municipali, intenzionate a mettere in sicurezza tutta la zona circostante all’aeroporto (questa, almeno, la motivazione ufficiale), realizzano lo sgombero di una parte della bidonville, generando il panico tra i residenti coinvolti. Decine di famiglie si ritrovano senza casa o attività commerciale, insufficienti le risorse per cercare nuove sistemazioni. L’evento non è nuovo alla cosiddetta “Manhattan dell’Africa”. Quella degli sgomberi è infatti per la città di Abidjan (e per diverse megalopoli del continente africano) una vera e propria pratica consolidata della politica urbanistica, con tanto di riferimenti antichi, “eroi” presenti e narrazioni e azioni ritualizzate. In epoca coloniale gli sgomberi accompagnavano l’arrivo dei francesi e il loro insediamento. Dall’Indipendenza (1960) ciò si ripete ogni qualvolta il Paese – e dunque Abidjan, che ne è l’epicentro socioeconomico – conosce fasi di relativa prosperità. Fautori di queste pratiche personalità come quella della ministra per la Salubrità pubblica, soprannominata “maman bulldozer” (mamma ruspa).

Sviluppo insostenibile

Il periodo che va dalla fine della crisi politico-militare (2010) ad oggi segna una ripresa delle operazioni di sgombero: i ritmi di crescita annua tra 7 e 10% del PIL fanno parlare i commentatori di “nuovo miracolo ivoriano” e, nell’ambito dell’inusitato slancio macroeconomico, la megalopoli torna al centro di grandi piani di trasformazione urbanistica, come lo “Schema per una Grand Abidjan per il 2030”. Nelle dichiarazioni degli esponenti pubblici come nei documenti ufficiali risalta l’intenzione di subordinare la progettazione urbana a programmi preliminari sulle zone di precarietà abitativa. In questo modo, dietro ai progetti di nuove reti stradali per decongestionare la città o di abbellimento delle aree centrali, si nasconde quasi sempre un attacco rivolto a tutto ciò che rientra sotto il nome di “disordine urbano”, quartieri informali in primis. Indispensabile, a questo punto, aprire una breve parentesi sulle condizioni abitative di Abidjan, dove circa un quinto dei suoi 5 milioni di residenti vive in luoghi in teoria inabitabili, dato il carattere lagunare dell’area.

Le città invisibili

L’equivalente di 143 quartieri è afflitto dal sovraffollamento e da un complicato accesso a beni primari come acqua o elettricità. Evidentemente, l’amministrazione comunale si trova nella scomoda posizione di reagire velocemente al primato di Abidjan sul resto del Paese, fattore che le procura un carico demografico (e poi economico ed ambientale) senza dubbio insostenibile. I problemi, tuttavia, non fanno che riemergere nel momento in cui, per rispondere all’emergenza abitativa, le autorità intervengono con misure a dir poco a-sistematiche. Ciò consiste, nel caso degli sgomberi, nella mancata fornitura ai diretti interessati di tempo e risorse economiche per individuare sistemazioni alternative dignitose. Gli esempi in questo senso si sprecano: pensiamo al quartiere di Boribana, totalmente raso al suolo nel 2018 per lasciare spazio alla costruzione del quarto ponte di Abidjan. Conseguenza tipica di quest’urbanistica brutale e apparentemente improvvisata è il riversamento randomico delle persone sgomberate in nuovi accampamenti meno visibili e più distanti dal centro cittadino. In sostanza, si riproduce altrove quella stessa rete di sofferenza sociale che induce parte della popolazione ad una fuga disperata verso l’Europa. E ciò si fa più intenso e cruento nelle fasi di particolare tensione politica, come quella odierna, a ridosso di elezioni presidenziali altamente contestate.

(Andrea Guida)

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