La lezione degli avori afro-portoghesi

di Stefania Ragusa

Quando si parla dei rapporti tra Africa e Occidente, sul piano artistico, si finisce sempre col citare l’influenza del cosiddetto primitivismo sulle avanguardie del Novecento, le maschere, Henri Matisse e Pablo Picasso… Ma la “storia” comincia in realtà molto prima, almeno nel 15° secolo, e ci sono dei piccoli oggetti d’arte che lo attestano dimostrando, contestualmente, la natura paritaria -all’epoca- dello scambio economico e creativo tra i due continenti. Parliamo degli avori afro-portoghesi, a cui la mostra Ex Africa (aperta fino all’8 settembre a Bologna), dedica giustamente una sala intera: saliere, pissidi, olifanti, posate in avorio e impugnature per daga cesellate con precisione e maestria, su richiesta europea, da artisti degli odierni Sierra Leone, Nigeria e Congo.

Tra il 1455 e il 1456  i navigatori portoghesi arrivarono alla foce del fiume Senegal, nel 1460 toccarono le coste della Sierra Leone e nel 1471 quelle dell’attuale Ghana. Nel 1482 le navi dell’esploratore Diogo Cão avevano raggiunto l’estuario del fiume Congo. «I portoghesi», come scrive Ezio Bassani (con Gigi Pezzoli co-curatore della mosta e venuto a mancare durante il suo allestimento), «resisi conto delle capacità degli artisti delle popolazioni con cui erano venuti in contatto: i Sapi della Sierra Leone, i Bini (o Edo) dell’antico regno del Benin oggi in Nigeria, i Kongo dell’attuale regione tra la Repubblica Democratica del Congo e l’Angola, commissionarono loro opere in avorio, allora abbondantissimo in Africa, fornendo spesso i modelli per la forma e per la decorazione. Erano opere raffinate nell’esecuzione e preziose», destinate alle “camere delle meraviglie” e alle tavole e ai salotti dei nobili. Talvolta però si trattava anche di doni dei sovrani africani ai loro omologhi. Tra gli olifanti esposti, per esempio, ne troviamo due che erano stati inviati dal re del Kongo a un papa della famiglia Medici, Leone X o Clemente VII. I rapporti tra la corte africana e il Vaticano erano cordiali e intensi.

 

Per tornare all’aspetto artistico, nella Description de la Côte Occidentale d’Afrique, nei primi anni del 1500, lo studioso portoghese di origine morava Valentim Fernandes riportava che: «in Sierra Leone ci sono uomini molto raffinati e ingegnosi [che] fanno opere di avorio molto meravigliose da vedere di tutte le cose che si comanda loro di fare, ossia alcuni fanno cucchiai, altri saliere, altri impugnature per daga». Questi manufatti, che in parte e per qualche settimana ancora possiamo ammirare a Bologna, sono espressioni di una originale mescolanza culturale. Bassani ne sottolinea la natura ibrida, nella sua accezione positiva: sono frutto della fusione di due universi figurativi; “conseguenza” di viaggi, scambi e migrazioni, ossia degli elementi che mettono in moto la storia e la cultura. Arti e civiltà africane esistevano e interagivano con il mondo da molto ma molto prima che la più recente narrazione europea ne decretasse la “scoperta”. E gli avori afro-portoghesi sono qui a ricordarcelo.

Ife. Quartiere di Wunmonije. Testa di Oni con corona. ottone, XII-XV secolo.

La mostra Ex Africa merita però di essere visitata anche per le sue altre “stanze”,  ognuna delle quali propone  una tessera di conoscenza nel vasto (e in parte ancora scomposto e inesplorato) mosaico delle culture e delle arti africane. In particolare, noi siamo stati assai colpiti bellezza classica delle famose teste di bronzo di Ife e dalla forza espressiva delle terracotte Djenne, ma abbiamo molto apprezzato anche le sale espressamente allestite per sfatare due luoghi comuni ricorrenti: l’idea che l’arte africana sia anonima e quella che sia immobile. Non è così, e questo può oggi essere sostenuto anche attraverso delle prove oltre che in virtù di deduzioni logiche. Di grande interesse pure la sala in cui Pezzoli affronta il tema del difficile rapporto tra arte africana e Italia all’inizio del’900. Lo fa ricostruendo la prima pioneristica esposizione di arte africana realizzata a Venezia, nel 1922, al debutto di quella che sarebbe diventata la Biennale d’Arte. Curato dall’archeologo Carlo Anti e dall’antropologo Aldobrandino Mochi, l’allestimento proponeva 33 opere, provenienti in prevalenza dall’attuale Repubblica Democratica del Congo. Era un progetto quasi avveniristico, per via del focus artistico e non etnografico. Proprio per questo fu stroncato dalla critica: una bocciatura senza appello avrebbe portato alla rimozione dell’arte africana dal dibattito culturale e dalle manifestazioni artistiche nella Penisola per lunghi anni.

El Anatsui
Then, the Flashes of Spirit, 2011

 

Forse una mostra ambiziosa come questa, che omaggia anche la produzione artistica contemporanea dall’Africa, avrebbe avuto un’eco ancor più vasta se fosse stata allestita a Roma o Milano invece che a Bologna. Il capoluogo emiliano ha però il pregio di essere, logisticamente parlando, la città  più accessibile d’italia, uno snodo alla portata quasi di ogni regione. Se non l’avete ancora fatto, rompete quindi gli indugi e organizzatevi per visitarla. Ci sono ancora due settimane di tempo. Ne uscirete con uno sguardo diverso.

 

 

Stefania Ragusa
direttore@corrieredellemigrazioni.it

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